di Kate Beaton
Bao Publishing, 2023
pp. 436
All’età di ventuno anni so già che ogni lavoro è un buon lavoro. Anche un cattivo lavoro è un buon lavoro, sei fortunata ad averlo. Nel 2005, il posto dove trovare il buon lavoro, la buona paga, la vita migliore, sono le sabbie bituminose dell’Alberta del Nord. Vanno tutti lì. Lì c’è aria di boom. Il petrolio vale più che mai. Migliaia di posti di lavoro. Soldi senza fine. (p. 12-13).
Tutti, prima della sua partenza, sono pronti a dispensare indicazioni e consigli, ma nulla può preparare alla durezza dell’impatto con Syncrude, nei pressi di Fort McMurray. Visivo, in prima istanza: lo stabilimento appare come la città di Dite, avvolta nelle tenebre, illuminata da fuochi, fumi e luci baluginanti. Di giorno, lo scenario si fa ancora più spaventoso, con le ciminiere, i gas di scarico, la distesa di costruzioni in una terra desolata, che sa di frontiera pur senza esserlo.
“Sai, qui siamo tutti in due posti contemporaneamente, e a volte questo ci influenza, ciascuno in modo diverso. […] Ma se pensi che la sola vita che stai vivendo sia altrove, ti stai prendendo in giro.”“Al momento non ho una vita né qui né altrove” (p. 133)
Nello scorrere delle pagine, si va sempre più delineando un ambiente maschilista e spesso tossico, in cui solo opponendo continui rifiuti e resistenze a battute e inviti poco sottili si può sfuggire alla nomea di ragazza facile, e in cui non è sempre detto che le poche donne presenti facciano rete. È più o meno a metà del volume che ci si rende conto che le “sabbie bituminose” sono, al contempo, qualcosa di terribilmente concreto, ma anche un’espressione metaforica di qualcosa che invischia, che impantana la vita di Kate. «Pensi che la gente sia diversa qui da come è a casa propria? […] Si cambia per sempre?» (p. 201), chiede e si chiede la ragazza. «Credi che questo posto renda la gente peggiore o migliore?» (p. 224), continua a interrogare, mentre cerca di rielaborare quanto di orribile le capita, o il senso di straniamento e diversità che inizia a provare sulla sua pelle.
L’unica piccola consolazione, in giornate che scorrono lente, sotto l’ombra del prestito ancora da estinguere, è trovare schegge di casa in altri lavoratori che provengono dalla sua terra natia, la Nuova Scozia. La comunanza delle origini crea gentilezza, comunità, offre un aggancio con le proprie radici che altrimenti si sentirebbero recise, impedisce il processo di inaridimento che altrimenti si rischierebbe. Ma anche quando si sperimenta questa vicinanza, quando magari arrivano amici o lontani cugini da Capo Bretone, anch’essi mossi dalla necessità, è difficile scoprirsi del tutto, far vedere come si è diventati («È tutto normalissimo. La gente, la spiaggia, un’estate normale… ma io no, non lo sono», p. 239). Solo la sorella Becky, che segue le orme di Kate e la conosce bene, è in grado di decifrare il baratro che si è aperto sotto i suoi occhi vuoti.
la vita del campo pone una serie specifica di sfide alla salute mentale, in un ambiente poco preparato a gestirle. La noia, l’isolamento, la solitudine e la depressione si accumulano in molti, e per molti di loro sono troppo da affrontare. (p. 433)
le persone come lei non pensano che gli uomini che conoscono si comporterebbero allo stesso modo. Non immaginano che la solitudine e la nostalgia di casa e la noia e l’assenza di donne intorno a loro cambierebbero i loro fratelli, o padre, o mariti nella stessa maniera… (p. 375).
“Non so a quante riunioni sulla sicurezza sono stata, ma mai una sulla droga. O sull’alcol. O sui motivi del perché se ne abusa così tanto, qui.” […]“Le zone d’ombra della popolazione ombra.” (p. 400)
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