Una donna tra le sabbie bituminose: "Ducks", il toccante graphic memoir di Kate Beaton



Ducks. Due anni nelle sabbie bituminose
di Kate Beaton 

Bao Publishing, 2023
 
pp. 436

€ 27,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
 
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Con una laurea in arte e un prestito studentesco ingente da ripagare, in una zona del Canada che non è mai stata toccata dal boom economico, Kate sa di non potersi permettere il lusso di sogni grandi. È costretta quindi, come moltissimi abitanti di Mabou, a Capo Bretone, a trasferirsi per cercare fortuna, nella speranza (che non è però certezza) di poter tornare un giorno. La prospettiva, per chi si trova a nascere e crescere in un contesto rurale e privo di occasioni per i giovani, è inevitabilmente concreta, se non cinica:
All’età di ventuno anni so già che ogni lavoro è un buon lavoro. Anche un cattivo lavoro è un buon lavoro, sei fortunata ad averlo. Nel 2005, il posto dove trovare il buon lavoro, la buona paga, la vita migliore, sono le sabbie bituminose dell’Alberta del Nord. Vanno tutti lì. Lì c’è aria di boom. Il petrolio vale più che mai. Migliaia di posti di lavoro. Soldi senza fine. (p. 12-13). 

Tutti, prima della sua partenza, sono pronti a dispensare indicazioni e consigli, ma nulla può preparare alla durezza dell’impatto con Syncrude, nei pressi di Fort McMurray. Visivo, in prima istanza: lo stabilimento appare come la città di Dite, avvolta nelle tenebre, illuminata da fuochi, fumi e luci baluginanti. Di giorno, lo scenario si fa ancora più spaventoso, con le ciminiere, i gas di scarico, la distesa di costruzioni in una terra desolata, che sa di frontiera pur senza esserlo.

Mentre il paesaggio viene silenziosamente avvelenato, il lavoro risucchia la vita: i turni di notte si succedono sempre uguali, e la protagonista deve destreggiarsi tra battute sessiste e piccole mortificazioni. I rapporti con la famiglia si allentano, perché Capo Bretone è lontano e i biglietti per tornare a casa sono troppo costosi. Anche il tempo si sfilaccia: Natale diventa un giorno come un altro, assorbito da un malessere diffuso che toglie ogni voglia di festeggiare.
“Sai, qui siamo tutti in due posti contemporaneamente, e a volte questo ci influenza, ciascuno in modo diverso. […] Ma se pensi che la sola vita che stai vivendo sia altrove, ti stai prendendo in giro.”
“Al momento non ho una vita né qui né altrove” (p. 133)


Nello scorrere delle pagine, si va sempre più delineando un
ambiente maschilista e spesso tossico, in cui solo opponendo continui rifiuti e resistenze a battute e inviti poco sottili si può sfuggire alla nomea di ragazza facile, e in cui non è sempre detto che le poche donne presenti facciano rete. È più o meno a metà del volume che ci si rende conto che le “sabbie bituminose” sono, al contempo, qualcosa di terribilmente concreto, ma anche un’espressione metaforica di qualcosa che invischia, che impantana la vita di Kate. «Pensi che la gente sia diversa qui da come è a casa propria? […] Si cambia per sempre?» (p. 201), chiede e si chiede la ragazza. «Credi che questo posto renda la gente peggiore o migliore?» (p. 224), continua a interrogare, mentre cerca di rielaborare quanto di orribile le capita, o il senso di straniamento e diversità che inizia a provare sulla sua pelle.

L’unica piccola consolazione, in giornate che scorrono lente, sotto l’ombra del prestito ancora da estinguere, è trovare schegge di casa in altri lavoratori che provengono dalla sua terra natia, la Nuova Scozia. La comunanza delle origini crea gentilezza, comunità, offre un aggancio con le proprie radici che altrimenti si sentirebbero recise, impedisce il processo di inaridimento che altrimenti si rischierebbe. Ma anche quando si sperimenta questa vicinanza, quando magari arrivano amici o lontani cugini da Capo Bretone, anch’essi mossi dalla necessità, è difficile scoprirsi del tutto, far vedere come si è diventati («È tutto normalissimo. La gente, la spiaggia, un’estate normale… ma io no, non lo sono», p. 239). Solo la sorella Becky, che segue le orme di Kate e la conosce bene, è in grado di decifrare il baratro che si è aperto sotto i suoi occhi vuoti.

Discriminazione
e violenza sessuale e di genere non sono del resto gli unici temi sociali ad essere affrontati nel volume: la vita nei campi di lavoro è dura anche per gli uomini; anche se gli stipendi sono buoni, molti operai sono costretti a vivere lontani dalle loro famiglie, in un luogo pericoloso in cui spesso i dispositivi di protezione risultano inadeguati e la possibilità di crescita lavorativa è minima. L’argomento viene approfondito nella Postfazione, dove Beaton osserva: 
la vita del campo pone una serie specifica di sfide alla salute mentale, in un ambiente poco preparato a gestirle. La noia, l’isolamento, la solitudine e la depressione si accumulano in molti, e per molti di loro sono troppo da affrontare. (p. 433)
Uno degli obiettivi dell’opera è allora quella di mostrare l’umanità che trova spazio all’interno dei campi, oltre che la disumanità, perché «il bene e il male ci sono nello stesso momento e nello stesso luogo, e […] le sabbie bituminose sfuggono alle facili caratterizzazioni» (ibid.). In questa prospettiva, allora, la denuncia non è tanto rivolta ai singoli individui, spesso maschi, quanto a un sistema che crea le condizioni perché tutto questo si verifichi e che difficilmente può essere compreso da chi lo osserva da un punto di vista esterno: 
le persone come lei non pensano che gli uomini che conoscono si comporterebbero allo stesso modo. Non immaginano che la solitudine e la nostalgia di casa e la noia e l’assenza di donne intorno a loro cambierebbero i loro fratelli, o padre, o mariti nella stessa maniera… (p. 375). 
Quella che propone Beaton non è, attenzione, una visione deterministica: nei campi dell’Alberta si incontrano anche tante brave persone, uomini integri, ma questo non significa necessariamente che l’ambiente malsano (anche letteralmente) in cui sono inseriti non impatti su di loro come sugli altri, non finisca per segnarli ugualmente, anche se con esiti differenti. Anche per questo, spesso trascurato, nei campi esiste un serio problema di dipendenze, che non si riesce a eradicare perché tutti paiono riluttanti a parlarne:
“Non so a quante riunioni sulla sicurezza sono stata, ma mai una sulla droga. O sull’alcol. O sui motivi del perché se ne abusa così tanto, qui.” […]
“Le zone d’ombra della popolazione ombra.” (p. 400) 
La lettura del graphic memoir risulta indubbiamente interrogante, impegnativa, e non solo per l’importante numero di pagine. Non ho, personalmente, riconosciuto nell’opera quell’umorismo di cui parlano alcune recensioni. Certo è però che, nel coraggio della verità di cui si fa portatore, nella volontà esplicita e preziosa di complicare la rappresentazione di un fenomeno per sua natura complesso, invece di semplificarlo o banalizzarlo, si ritrova la ragione dei molti premi e riconoscimenti che Ducks ha, meritatamente, ricevuto.

Carolina Pernigo




Immagini degli interni messe gentilmente a disposizione dalla casa editrice