Melvill
di Rodrigo Fresán
Mondadori, agosto 2023
Traduzione di Giulia Zavagna
pp. 312
€ 20 (cartaceo)
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€ 10,99 (ebook)
E a proposito, Allan, l'indomabile ricciolo che hai sulla fronte assomiglia molto a una tempesta, non è vero? Il tuo ricciolo come un incubo che mi appare in tutti i quadri e che, senz'altro, meriterebbe l'immortalità in un dipinto, ne sono convinto...è forse una dimostrazione o una sindrome di quello che voi chiamate amore...di essere innamorato...di essere innamorato pazzo? (p. 128)
Parlare di questo testo non è semplice: Rodrigo Fresán, famoso scrittore e giornalista argentino, non ci propone una biografia o un memoriale di io narranti d'eccellenza, non pensa di illustrarci le vite di Allan e Herman Melville semplicemente mettendo insieme una sequenza di eventi, ma fa molto di più.
Dona voce a entrambi, suddividendo il testo in tre parti: la prima, "Il padre del figlio", che ci introduce i due personaggi dal punto di vista esterno, quasi onnisciente, di una terza persona che guarda la scena dall'alto, la scena in cui Allan Melville, padre di Herman, è a letto e delira, mentre suo figlio prende appunti. Una sezione stracolma di note, quasi più folte del testo stesso, in cui l'autore (e Herman stesso) spiega come si è arrivati a quel punto di non ritorno, ripercorrendo le tappe della sua infanzia e dell'evoluzione di suo padre da ricco commerciante pieno di promesse a folle allettato.
Comprendiamo anche il perché di quella "e" evanescente nel titolo:
Ed è lì (il professor Henry ha commesso un errore nel comunicare i dati all'incisore) che leggo per la prima volta [...] il mio cognome scritto Melville. (p. 52)
Poco tempo dopo la morte di Allan Melvill, la sua vedova Maria Gansevoort, in qualche modo, diventa una grande scrittrice dall'opera brevissima decidendo di aggiungere una e finale al suo cognome da sposata [...] spera così di evitare e forse disorientare i creditori del defunto marito. (p. 160)
Sia errore che una scelta dunque, laddove è il figlio a ricreare il suo creatore, quel padre rappresentato in copertina da un ricciolo, particolare di un dipinto che gli viene fatto nel 1810 e che oggi si può ammirare al Met di New York.
La seconda parte centrale, la mia preferita, slitta il punto di vista dando voce ad Allan stesso che, dal suo letto di morte, racconta a Herman le sue ultime volontà. Più, però, che volontà, l'autore sceglie di affidare all'uomo un insieme di ricordi e racconti assolutamente deliranti ma pieni di poesia, a partire dal quel suo viaggio in Gran Tour fino all'incontro con il misteriosissimo Nico C, per inserire nel mezzo di queste pagine una scienza tutta sua che chiamerà Melvillogia glaciologica e che scaturisce tutta da un evento chiave: l'attraversamento a piedi del fiume Hudson gelato il 10 dicembre del 1831.
Il Delirio Bianco verrà chiamato da Allan, questo caos di ricordi, deliri, evocazioni e lampi di genio che hanno per leitmotiv la forma, il colore e la natura stessa del ghiaccio. Fresán, rispettando la vocazione del suo testo, riprende un capitolo (solitamente il 42°) di Moby Dick, quello legato alla bianchezza della balena, e lo traspone qui, dedicando intense pagine alla descrizione della "bluezza" del ghiaccio.
Il Delirio Bianco verrà chiamato da Allan, questo caos di ricordi, deliri, evocazioni e lampi di genio che hanno per leitmotiv la forma, il colore e la natura stessa del ghiaccio. Fresán, rispettando la vocazione del suo testo, riprende un capitolo (solitamente il 42°) di Moby Dick, quello legato alla bianchezza della balena, e lo traspone qui, dedicando intense pagine alla descrizione della "bluezza" del ghiaccio.
Se la prima parte del libro è piena di note, questa è piena di asterischi.
Seppure ho affermato che l'io narrante qui sia Allan, è lui stesso a mescolare le carte: ora in prima, ora in terza persona, non con l'intento di confondere il lettore, ma per rendere ancora più efficace la sua pazzia.
D'accordo, è vero: come mi fai notare, sono già qui. Ma lo sono solo con il corpo, la mia anima è ancora sospesa tra le due rive del fiume, la riva della lucidità e quella della demenza. E fra l'una e l'altra, quel fiammeggiante torrente gelato che è Nico C. (p. 95)
La terza parte, "Il figlio del padre", cede la voce a Herman adulto, che salta tra passato, presente e futuro in un mescolamento di piani temporali che sembra un diario scomposto e letto ad alta voce saltando a piè pari intere pagine. La fusione, i continui rimando al mondo del mare e della navigazione, il testo colmo di parentesi e frasi esplicative (dopo le note e gli asterischi) mettono insieme un racconto che cerca di spiegare la genesi di uno degli scrittori più importanti di tutti i tempi. Singolare che l'autore affidi questo compito a Herman in prima persona, lontano però da autocelebrazioni e, anzi, colpevole di sentirsi quasi sempre inadatto e colpito in pieno dalla follia del padre, quasi fosse una questione di tara genetica.
A prescindere dal fatto che i fan di Moby Dick e di Melville potrebbero impazzire per un testo del genere, come dicevo, le pagine centrali narrate dal padre sono - non ho paura di affermarlo - quanto di più bello, elegante ed evocativo letto negli ultimi anni. All'interno c'è tutto: la follia, la poesia, la speranza, la consapevolezza della morte, il mare e la terra, l'ignoto e persino il fantasioso, incarnati nella persona di Nico C. Vero è che si potrebbe attribuire il parto di questo personaggio al Delirio Bianco di Allan, ma a me piace pensare (e anche a Herman, come vedrete) che sia davvero esistito.
Si tratta di un testo che va centellinato, letto con calma, se è possibile riletto più volte.
Melvill è un "romanzo" colto, anche snob se vogliamo, dedicato a quei lettori (per ammissione stessa dell'autore) che non leggono solamente libri "facili" o romanzi "normali".
Una nota: splendida la traduzione di Giulia Zavagna che ha fatto un lavoro eccellente.
Lo consiglio, ovviamente, a chi è fan di Herman Melville o a chi non conosce nulla dell'autore: mi sembra un buon punto di partenza se siete lettori allenati.
Deborah D'Addetta
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