di Marta Ciccolari Micaldi
Rizzoli, agosto 2023
pp. 400
€ 18,50 cartaceo
€ 9,99 ebook
«Vorrei mettermi sulle tracce di uno scrittore che per me significa molto e che ha vissuto qui per dieci anni. Insegnava all’università, nel dipartimento di Letteratura inglese. Il suo nome era David Foster Wallace» (p. 45, Illinois)
È partita da qui Marta Ciccolari Micaldi, nota sul web come La McMusa: da Bloomington, Illinois, nel 2013. Anzi, in realtà era partita già molto prima, con anni di studio e progetti in Italia, ispirata dalla prof.ssa Barbara Lanati, cui il libro è dedicato. E se quel viaggio del 2013 non era la prima volta che metteva piede negli Stati Uniti ha però indicato una direzione, verso quello che nel tempo avrebbe costruito, nelle modalità narrative, nell’intreccio indissolubile tra America e letteratura, pop culture e luoghi. Dieci anni dopo il soggiorno in Illinois – e una carriera costruita con passione e tenacia – La McMusa ha finalmente pubblicato con Rizzoli il suo primo libro che, come efficacemente recita il sottotitolo, è «un viaggio nel cuore degli Stati Uniti attraverso incontri, pagine di letteratura e sogni americani». Sparire qui, che per il titolo si ispira a Bret Easton Ellis e alla sua Los Angeles, è un testo ricco, stratificato, intelligente, umanissimo. E molto, molto americano.
Lo è, molto americano, nei luoghi che racconta certo, ma già anche nella forma: un memoir, forma narrativa molto apprezzata negli Stati Uniti e che significa qualcosa di un po’ diverso rispetto a come la intendiamo invece qui in Italia, dove per lo più sembra legata a narrazioni intime, personali, di esperienza umana. Certo, la componente personale e autobiografica è parte del memoir, ma c’è qualcosa di altro ed è quella spinta all’esterno, che si traduce in narrazioni che smettono di concentrarsi sul proprio ombelico per osservare davvero quello in cui sono immerse: i luoghi, la società, le persone che li abitano e compongono, la letteratura che li racconta. E che rendono quindi il memoir qualcosa di particolarmente vivo, interessante, quanto più è capace di partire dal personale per farsi universale, intrecciandosi ad altre forme narrative, come il reportage, per esempio. Scomodo Joan Didion, maestra indiscussa di questa tensione perfetta tra personale e universale, memoir e reportage, perché è bene ribadire la differenza tra autobiografia – e autofiction – e memoir.
Leggere Sparire qui insegna prima di tutto una cosa fondamentale sugli Stati Uniti: la necessità di spogliarsi. Spogliarsi dei pregiudizi e degli stereotipi con cui crediamo di conoscere una realtà tanto grande quanto complessa e talvolta contraddittoria; spogliarsi dello sguardo europeo, fatto di un certo snobismo e concetto del bello con cui tendiamo a confrontare tutto il resto.
[…] I miei occhi di europea e i modi con cui ero abituata a interpretare e raccontare il mondo non dovevano essere troppo presuntuosi qui. Non erano adatti. Quella che avevo davanti a me era una storia riconoscibile, vicina alla mia ma allo stesso modo diversa. (p. 23)
È solo dopo aver accettato questo, dopo aver abbandonato il filtro della realtà cui siamo abituati, che la McMusa e noi lettori con lei possiamo intraprendere il viaggio nella cultura statunitense, accettandone le molte contraddizioni e complessità. Amare un luogo, una cultura, una letteratura, non significa chiudere gli occhi di fronte ai suoi aspetti meno edificanti ma, al contrario, indagarne anche le ombre, nel tentativo di ricostruirne l’identità. Sparire qui è quindi la costruzione – e decostruzione per certi versi – di quell’identità, che l’autrice cerca tra le pagine, sulle strade, nelle storie delle persone, dentro le stanze dei motel. E che spesso l’ha portata fuori dalle rotte convenzionali o a puntare lo sguardo laddove molti scelgono invece di voltarsi dall’altra parte per alimentare lo stereotipo che hanno in testa:
Giorno dopo giorno, miglio dopo miglio, casa dopo casa. Un’America reale, viva, diversa. L’America che tanti avrebbero chiamato minore, che per me era diventata essenziale. Un’America da cui tanti scappano, che molti neanche vogliono vedere, ma che invece io stavo scegliendo e avrei continuato a scegliere per anni per studiare e capire la sua anima. (p. 73)
Osservare tutto questo e, soprattutto, ascoltare le persone è la cifra di Marta Ciccolari Micaldi e ciò che le ha permesso di elaborare una narrazione tanto veritiera e non stereotipata della società statunitense, anche quando significa indagarne le pieghe più oscure e problematiche: l’ascesa di Trump, la costruzione di muri, l’uso delle armi, gli homeless. Sono pagine intrise di letteratura, riflessioni personali, miglia, strade e storie, polifoniche come l’America che raccontano, in cui la narrazione è lucida e passionale insieme, capace di abbracciare le luci quanto le ombre.
Di queste ombre – molte delle quali anche personali, in un rivelamento che appare necessario – colpisce probabilmente più di altre la riflessione sulla manipolazione delle informazioni e la tragedia intorno all’uragano Katrina, cui vengono dedicate pagine particolarmente intense e oneste, e l'urgenza di ricostruire una verità per molto tempo taciuta:
Era stato il lago Pontchartrain, l’immenso specchio d’acqua a nord della città che, a causa dei venti dell’uragano, il 29 agosto 2005 generò un’onda di marea tanto alta e distruttiva da essere considerata uno tsunami e invase la parte settentrionale della città quando le sue strade erano già asciutte e le piogge erano finite da un pezzo. Inondò la città portando a nudo una colpa che non aveva nulla a che fare con la natura o il clima o il cielo bensì dipendeva dall’uomo e dall’uomo soltanto: ruppe gli argini. Argini che, al contrario, avrebbero dovuto reggere e proteggere i quartieri residenziali, come era stato stabilito dalle norme anti inondazione su cui la popolazione aveva fatto, giustamente, affidamento. Scoprendosi poi, dopo appena qualche ora, tradita. (p. 127)
E qui, ancora, è alla letteratura che ci si rivolge per capire, per sentire il peso di quello che stava accadendo a New Orleans in quei giorni terribili: a Zeitoun, il romanzo crudele e necessario di Dave Eggers «scritto per raccontare la storia vera di un uomo di origini arabe e di fede musulmana» di fronte all’orrore, la paura.
Gli altri, le masse di persone che erano rimaste senza casa, che non avevano una macchina per scappare, che avevano appena perso qualcuno di caro e lo vedevano galleggiare a faccia in giù in quel flusso scuro e dolce che ora era padrone delle strade, queste masse furono rinchiuse nello stadio di New Orleans, il Superdome, senza cibo né medicine né vestiti né acqua tranne quella che ancora gocciolava dal tetto rotto. Per quattro giorni oltre alle forze del male non arrivò nessun altro in grado di aiutare la popolazione o, meglio, nessuno che, indirizzato dall’allora presidente Bush, volesse realmente portare soccorso a una popolazione prevalentemente povera e nera e non quello che all’epoca, un’epoca segnata dal terrore dell’Islam e dal razzismo delle istituzioni, veniva spacciato per ordine. (p. 130)
«Su questa terra, violenza e bellezza convivono in forme che non sapevo e non potevo sapere» scrive Cormac McCarthy parlando del Texas, ma violenza e bellezza sono il fondamento di una nazione intera, in una tensione tra due estremi che non può essere ignorata.
Miglio dopo miglio, Marta Ciccolari Micaldi impara a conoscere e raccontarci l’America, le luci e le ombre, le storie che resteranno per sempre e le vite ordinarie, la letteratura e la pop culture, perché di questi dualismi è intrisa e l’uno non può esistere senza l’altro.
È una postura dello sguardo con cui osservare la società americana nel tentativo di comprenderla e restituirla ai lettori, ai follower, ai viaggiatori dei suoi tour letterari. È la ricerca dell’autenticità, la stessa che si riversa su queste umanissime, americane, pagine.
Ma a me interessava – e sempre sarebbe interessato – proprio quello, la vita media degli americani medi, una vita senza spettacolo, senza sublimazioni, senza tante smancerie ma con tante trame di autenticità in cui potersi infilare. (p. 329)
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