La Repubblica dell'immaginazione
di Azar Nafisi
Adelphi, settembre 2023
Traduzione di Maria Grazia Gini
pp. 331
€ 14 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Molto prima di un mondo suddiviso in paesi e nazioni, esisteva, nella mia mente, una Repubblica dell’immaginazione: un posto dove potevo spiccare il volo, libera dal peso delle noiose regole che governavano la mia esistenza terrena. (Prefazione alle edizioni straniere, p. 13)
In quella Repubblica dell’immaginazione Azar Nafisi, scrittrice di origini iraniane e da molti anni cittadina statunitense, continua ad abitare, rivendicandone la forza e la necessità. Perfino nei momenti più oscuri, perfino sotto l’oppressione, perché anzi è proprio in certi contesti che l’immaginazione si fa urgente e necessaria, la letteratura salvifica. Celebre per il seminario clandestino nel quale insegnava letteratura inglese alle sue migliori allieve dell’Università di Teheran durante il governo degli ayatollah, da cui nacque il saggio letterario-memoir Leggere Lolita a Teheran, Nafisi ha vissuto molte vite, abitando diversi luoghi reali e narrativi, forte del potere della parola scritta.
Adelphi riporta in libreria in una nuova edizione il terzo volume di questa trilogia sulla letteratura: La Repubblica dell’immaginazione, pubblicato per la prima volta nel 2014, è il proseguimento ideale di Leggere Lolita a Teheran ma anche un testo auto compiuto che forse soffre un po’ la prova del tempo e una certa prolissità a tratti, ma sono “debolezze” che non contano poi molto di fronte agli innumerevoli spunti di riflessione che contiene.
Nafisi parte da qui, dalla necessità dell’immaginazione, dal ruolo primario della letteratura, la cui potenza pare essere riconosciuta più sotto i regimi totalitari che nel mondo cosiddetto libero; e per riflettere sulla letteratura statunitense e la sua percezione sceglie tre romanzi; o, per meglio dire, sceglie il romanzo da cui poi deriva in buona misura tutta la letteratura americana moderna e contemporanea: Le avventure di Huckleberry Finn, di Mark Twain e alcuni eredi di Huck, il Babbitt di Sinclair Lewis e Il cuore è un cacciatore solitario di Carson McCuller. All’indagine letteraria si intrecciano storie e riflessioni personali, in una commistione caratteristica di Nafisi e che rende il testo particolarmente efficace, vivo, in dialogo con il lettore, di ieri e di oggi.
Quello che abbiamo tra le mani non è un saggio critico su Huck e i suoi eredi, pur contenendo riflessioni molto puntuali sulle opere e gli autori, ma un dialogo particolarmente ricco che ricolloca questi testi in un discorso più ampio: l’urgenza della letteratura, la censura e la cancel culture, la società dei consumi, il sistema scolastico e l’utilitarismo, la condizione dell’esule. Nafisi osserva la letteratura nordamericana da un punto di vista particolare, che per molto tempo è stato un altrove geografico e politico e in seguito è mutato in una nuova vita negli Stati Uniti. La letteratura è diventata un ponte tra le due realtà e tra le due vite vissute, in un processo che sarà sempre per sua natura arricchito dall’esperienza personale e che le permette anche di osservare le complessità e contraddizioni della società statunitense senza il filtro della retorica. È appunto la sua struttura, la voce di Nafisi, a rendere particolarmente interessante questo testo ibrido e che, arrivata alla fine, mi ricorda una delle cose per me più essenziali come lettrice:
[…] la letteratura è, nella sostanza, un’indagine sull’«altro» […]. I libri non dovrebbero servire a mettere in discussione le nostre opinioni e i nostri pregiudizi, anziché ad affermarli? (p. 299)
Ripenso molto a questo passo negli ultimi giorni, anche a seguito della lettura di un articolo di Marco Missiroli uscito su Robinson a proposito dell’ultimo romanzo di Bret Easton Ellis appena pubblicato da Einaudi e, di contro, le riflessioni assai puntuali e argute di Marta Ciccolari Micaldi nella sua newsletter: entrambi si addentrano nel romanzo di Ellis ma partendo da due posizioni opposte che mutano per forza di cose la percezione, il giudizio, sul libro; laddove Missiroli pare cercare qualcosa di sé, una sorta di seppur minimo riconoscimento-identificazione con i personaggi de Le schegge, Ciccolari Micaldi al contrario avverte come la potenza del libro sia proprio nel suo straniamento, suggerendo tra le righe che non abbiamo bisogno di riconoscerci in una storia per apprezzarla, anzi, talvolta è proprio il contrario. È innegabile che l’atto di lettura preveda una forte componente emotiva, ma sono pienamente d’accordo con la posizione di Ciccolari Micaldi e, per estensione, con quel passo di Azar Nafisi citato poc’anzi e che rappresenta uno dei centri nevralgici del testo in questione.
[…] una certa chiave di lettura dei romanzi: quella secondo cui ci si deve identificare con i personaggi, considerarli rappresentativi di determinati tipi umani o condizioni sociali. Ma i lettori, come gli scrittori, sono imprevedibili. Sono ribelli e, al di là di tutte le indicazioni che possono ricevere, troveranno un loro modo personale di entrare in comunicazione con un libro. (p. 235)
È quell’«altro» che scopriamo sulla pagina, un altro molto spesso diverso da noi, nel quale possiamo anche non riconoscere nulla in comune con quello che siamo, viviamo, desideriamo, ma che proprio nella sua diversità ci dispiega un immaginario alternativo e denso. Un discorso che si potrebbe benissimo applicare all’atto stesso della scrittura e che forse varrà la pena approfondire in altro momento.
Perché quindi questi tre testi (e un quarto autore in conclusione, l'impareggiabile James Baldwin), perché Huckleberry Finn? Perché secondo Nafisi Huck è la voce dell’America, totalmente nuova, che segna un punto di rottura con la tradizione che l’ha preceduto e con le influenze europee; Huck è un personaggio concreto, reale, che rifiuta le regole soffocanti di una società conformista e contraddittoria e il suo viaggio insieme a Jim esprime il desiderio e la necessità di essere liberi. Un romanzo complesso di cui personalmente ricordo bene infatti le difficoltà del leggerlo in lingua originale ma che mostrava innegabile la sua carica rivoluzionaria, la rottura delle convenzioni letterarie e della tradizione. È forse il primo, vero, romanzo americano, con una voce assolutamente propria e identificativa.
Un testo incendiario e specchio di un’epoca che oggi si vorrebbe edulcorare, secondo una certa deriva della cancel culture. Ben prima che di questo si parlasse, Nafisi rifletteva proprio sulla censura del passato letterario che negli anni della pubblicazione de La Repubblica dell’immaginazione forse non aveva ancora un’etichetta ma stava già prendendo forma, a partire dai programmi scolastici:
Fermiamoci a pensare che cosa vorrebbe dire censurare dai nostri libri di testo tutti gli aspetti scomodi. Se non riusciamo a guardare al passato così com’è, potremo mai sperare di insegnare la storia? (p. 88)
È chiaro che Nafisi, fuggita dalle oppressioni degli ayatollah e che ben comprende i pericoli della censura, sia particolarmente attenta alla questione e qui anticipi in parte il dibattito attuale. In una lunga riflessione su istruzione, programmi scolastici e censura, sottolinea tanto i pericoli dello snaturare un’opera letteraria quanto quelli di voler proteggere a tutti i costi i giovani e i lettori in generale dalle questioni complesse, nel nome di una sensibilità da difendere con ogni mezzo. Ancora una volta mi trovo d’accordo con la posizione di Nafisi, alla luce anche di un’attualità in cui certi discorsi paiono davvero distanti dalla realtà: ogni giorno sui nostri schermi passano immagini di violenza inaudita, davvero non possiamo contestualizzare l’uso di «negro» in un romanzo del 1884 ambientato nel Sud degli Stati Uniti? Mi rendo perfettamente conto che la questione è complessa e non possa essere liquidata in queste poche righe, ma è necessario iniziare a riflettere in modo accorto su cancel culture, censura, istruzione.
È ancora sul sistema scolastico che Nafisi concentra alcune delle sue riflessioni più interessanti e largamente attuali, partendo da uno spunto generale:
La crisi che affligge gli Stati Uniti non è solo economica o politica. Qualcosa di più profondo sta sconquassando il paese: una visione mercenaria e utilitaristica insensibile al vero benessere della gente, che taglia fuori l’immaginazione e il pensiero, che marchia come insignificanti la passione per la conoscenza. (p. 34)
Per poi continuare:
Io mi oppongo all’idea che la passione e l’immaginazione siano superflue, che le discipline umanistiche non servano a niente dal punto di vista pratico o pragmatico, e che quindi debbano essere subordinate ad altre materie più utili. (p. 35)
È Babbitt di Sinclair Lewis il romanzo che Nafisi utilizza per addentrarsi nella questione e che perfettamente identifica le contraddizioni e i pericoli della società dei consumi e l’utilitarismo che ha travolto il sistema scolastico – vorrei dire statunitense, ma ahimè mi pare una deriva globale. Lewis, primo scrittore statunitense ad aver vinto il Nobel per la letteratura (1930) e che come pochi altri ha saputo raccontare i «paradossi dell’essere americano» ma anche anticipare tematiche e problemi che non si sono davvero esauriti: il conformismo, la religione, i diritti delle donne, il fascismo, la razza. Con il suo businessman in crisi, Babbitt, Lewis fotografa la società individualista fondata sul libero mercato, lo status rappresentato dagli oggetti che cela la vacuità di molte vite. Il collegamento tra Babbitt e la società contemporanea è quantomai evidente e Nafisi ci porta a riflettere – perché è appunto questo che fa La Repubblica dell’immaginazione – non solo sulle dipendenze dagli oggetti che sono parte della nostra quotidianità ma sul ruolo che abbiamo loro attribuito:
I beni materiali sono da sempre simboli del ceto e del prestigio, o pegni d’amore e d’amicizia. Ma l’America ha affidato loro un ruolo nuovo: oggi sono i nostri amici e, nonostante possano generare dipendenza, sono anche la quintessenza del superfluo. (p. 180)
Da qui una considerazione sulla solitudine e l’incomunicabilità, che tanto sembra caratterizzare il nostro tempo, e che si riallaccia anche alla terza scrittrice protagonista del saggio di Nafisi: Carson McCullers e i suoi personaggi disadattati immersi in una nuova solitudine urbana.
I personaggi di McCullers sono disadattati solitari che non riescono a creare legami. Forse parlano in maniera più «civilizzata» di Huck e Jim, ma non sanno come interagire, come entrare in connessione, come comunicare – sono spiritualmente incapaci di esprimersi, hanno scoperto un nuovo genere di solitudine urbana che getterà una lunga ombra sulla narrativa americana. (p. 227)
E a proposito di razza, cui si accennava più sopra, seppur breve risulta particolarmente interessante oggi il capitolo dedicato a James Baldwin, autore prolifero e che sosteneva la necessità di non essere identificato come scrittore nero perché la razza è un costrutto sociale, posizione che ha sempre mantenuto attraverso le sue opere e per la quale non sempre infatti è stato compreso. Penso immediatamente a Percival Everett uno scrittore tra i più originali e mai uguale a sé stesso, che della questione razziale ha scelto di non farne un manifesto politico, non in modo evidente almeno. Un discorso molto interessante secondo me quello del ruolo oggi dello scrittore afroamericano in un mondo ancora profondamente razzista.
La Repubblica dell’immaginazione, infine, è una rete di rimandi, spunti, che intreccia considerazioni letterarie e riflessioni personali, storie private e arte, che pure con qualche debolezza dovuta alla distanza temporale dalla stesura resta ancora fortemente interessante e per molti versi attuale, fungendo da mappa sentimentale dello spazio dell’immaginazione.
Oggi più che mai mi sembra di nuovo urgente sottolineare l’importanza delle letteratura, capace come nient’altro di allenare l’empatia, connetterci all’altro e, soprattutto in libri come questo, stimolare il pensiero critico, indagare le complessità e le contraddizioni della società contemporanea, formulando da noi le risposte più adeguate. Non da ultimo, La Repubblica dell’immaginazione è un atto d’amore verso la letteratura, il suo potere rivoluzionario. La consapevolezza della fortuna di poter accedere al mondo letterario senza timore di essere perseguitati.
Debora Lambruschini