«Dentro di noi c'era solo certezza, felicità e gioia, il verbo "spezzarsi" ancora non rientrava nel dizionario»: di quelle fragilità all'ombra de "L'albero di arance amare" di Jokha Alharthi

L'albero delle arance amare
di Jokha Alharthi
Bompiani, agosto 2023 

Traduzione di Giacomo Longhi

pp. 192
€ 17,10 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)

 
Quando una nonna non c'è più non esiste fotografia o ricordo che tenga a spiegarne il senso di vuoto. Quando una nonna non c'è più vorresti rintanarti per l'ultima volta in quegli odori, in quelle cure, nei precisi rumori dolci a cui solo una nonna riesce a dare vita. Quando una nonna non c'è più, allora, non c'è più nemmeno quella mamma adulta. 
Com'è possibile spiegare un'assenza senza inevitabilmente dar valore a una presenza spropositata? Come potrebbe essere riempito un vuoto senza il trabocco del suo pieno? Una nonna non ha altra figura sostituibile, né remore nel ripararla dalle attese perché è solo l'amore che le fa da scudo. 

Ne L'albero delle arance amare di Jokha Alharhi, edito da Bompiani e tradotto da Giacomo Longhi, è una nonna la protagonista indiretta del racconto, o meglio la vita di Zuhur che prende vita in connessione ai ricordi, ai luoghi e alle storie di una nonna ormai troppo esausta. Zuhur è una ragazza dell'Oman che studia in Inghilterra, si sente sola e fatica a trovare la sua strada in una lingua e una cultura che non sempre le permettono di esprimersi come vorrebbe. Ha degli amici, frequenta raduni e feste, ma niente le dà più sollievo come pensare a quei pomeriggi passati all'ombra di tutto quel verde che Bint 'Amir, la sua nonna del cuore, amava tanto accudire. Tra passato e presente Zuhur ripensa ai tempi che furono, alle sue radici e a quelle dei suoi genitori, alla storia di Bint' Amir che sembra avere semi in tante altre vite.

Sarebbe potuta essere una storia di trionfo dal momento che nei passaggi più coinvolgenti, lo spirito di questa nonna, con il suo profumo di “muschio di zibetto, prezioso olio di aloe e terra antica”, emerge in vividi aneddoti. Respingendo le avances di un negoziante predatore, è stata una ragazza con un occhio cieco che lavorava con i carbonai. Risparmiava per un viaggio infruttuoso su un camion Bedford per consultare un medico missionario, in un momento in cui gli abitanti del villaggio avevano bisogno del permesso del governatore coloniale per avventurarsi a Muscat. Attraverso l'espulsione di Bint 'Aamir dalla casa di suo padre e i suoi sogni frustrati di possedere un frutteto, il romanzo evoca una storia di fame e malattie dopo le guerre mondiali. Il devastante bilancio dell’emigrazione è qui esemplificato da Shaykha, un vicino affetto da demenza che arranca seminudo per i vicoli stretti alla ricerca di un figlio scomparso 40 anni prima. 

Nell'oggi tortuoso Zuhur fa spazio alle rivoluzioni sentimentali della sorella, una trattola piena di vita che cade nella totale apatia dopo la morte del primo marito e poi tiene da parte un luogo al sicuro per Kuhl e Imran, due amici che sfidano le regole sociali di classe e di appartenenza pur di sposarsi e inseguire un amore forte ma perditempo, ed è proprio in questo nuovo spazio fatto di concessioni proibite, segreti e sfide di un mondo rigido e ancora chiuso nei suoi ranghi, che Zuhur vorrebbe planare su quei corpi per l'ebrezza di un'esperienza di vita nuova, per provare, almeno una volta, quell'amore di cui tutti parlano, meno che lei:

«Ci siamo solo Kuhl e io al Three Monkeys e vorrei chiederle dell'angolo della bocca di Imran. Vorrei che la triste Kuhl urlasse il suo nome e io vorrei urlare con lei. Se solo da un cielo benevolo fosse discesa la grazia e mi avesse permesso di purificare i loro cuori a ogni alba. Ma abbiamo solo il silenzio, e il silenzio non perdona e non perdonano nemmeno le parole. La mia anima all'inizio aleggiava libera. Poi è planata sul tuo balcone, si è tuffata nel tuo cuscino, ha bevuto dal tuo bicchiere ed è andata a rannicchiarsi tra i tuoi libri. E ha abbracciato tua moglie. Un'anima fuori di sé non torna. Mio compagno, e vorrei dire mia solitudine, non toccare la mia anima che si aggira irrequieta nel tuo caffè, è solo un'ombra triste. Amico mio, e vorrei dire amore mio. Amore mio, e vorrei dire mio sposo» (pp. 170-171).

I protagonisti di Jokha Alharhi sono tutt'altro che inverosimili, sono fatti di carne ben visibile tra le parole, di cuori che soffrono, che amano e che vivono con quelle costrizioni e giudizi di cui è fatta la vita tutta. Non c'è momento in cui la sua scrittura appare leggera e stucchevole. Ogni pagina, ogni singolo pensiero racchiuso nella profonda inquietudine dei personaggi, è un po' il nostro. La scrittrice riesce in ogni modo, ad ogni capitolo e per qualsiasi racconto, a riportarci esattamente in quel momento, come se riuscissimo a vedere davvero il colore dei datteri, l'albero delle arance amare e la tendina di perle in camera di Imran.

Se scrivere per molti è un'urgenza, e se leggere è un gesto istintivo per chiunque ami guardare la realtà attraverso occhi sempre nuovi, capiamo che non è necessario che certe storie siano vere per rendersi conto, e prima ancora intuire, che gli snodi cruciali dell'esperienza umana sono tali da ripetersi in ogni storia, di ogni tempo e a ogni latitudine, in un perenne rincorrersi di evoluzioni che non perdono mai di vista i propri modelli archetipici. Di questi archetipi, L'albero delle arance amare pare a tratti riproporci l'impronta vera e profonda di un patrimonio di suggestioni che affondano in un intreccio narrativo che sa di focolare, e parole affidate a colori di luoghi lontanissimi. All'interno di un setting variegato tratteggiato con maestria, che sa farci respirare l'aria dei mercati, delle palme di banane, osservare lo spettacolo dei tramonti color oro e immaginare talvolta di trovarsi distesi all'ombra di un albero di arance, la densità di trama incombe: qualcosa sembra accadere, ma non accade mai. C'è sempre un particolare che riporta indietro alla mente, un dettaglio che racconta una storia e che svela un legame segreto, c'è sempre un'anima importante da raccontare prima che Zuhur dica alla nonna quanto sia stata preziosa nella sua vita.

I lettori apprendono molto poco su Zuhur al di fuori del suo dolore. Frequenta l’università da qualche parte in Gran Bretagna, anche se la distanza fisica da casa sembra influenzare il suo senso di appartenenza meno di quanto non faccia la morte di Bint Aamir. È un procedere quasi meditabondo, che esalta l'atmosfera del romanzo e che, via via, si dà un'accelerazione senza però andare mai al nocciolo, un insieme di forma e contenuto più che valido nonostante il continuo smarrirsi in flashback profondi e ricchi di particolari. È forse il rimpianto di non aver chiesto di più all'unica persona che sembrava occuparsi di lei a rendere Zuhur in costante apprensione per la vita, con addosso sempre la sensazione di un destino già scritto:

«Ogni mattina, quando mi alzo, la stanza è ancora buia e il mio destino è lì che mi aspetta; guardo il sorgere del sole e mi dico: "Ecco un'altra alba." Ma il mio destino si è già compiuto. Gli sono andata incontro io, ho guidato io i miei passi. Ho agognato e detestato ognuno di quei miei passi, ho desiderato e paventato ogni ostacolo. Dentro di me, ogni vena pulsava, pronta a esplodere, ogni cellula vibrava, agitata, tutto di me era lì che aspettava ma il mio destino, quel destino che non sarebbe più cambiato, che si è compiuto come speravo e come temevo, era già lì, sulle mie spalle. Me lo portavo addosso ovunque andassi, lo ricoprivo con un'infinità di discorsi su tutto e su niente» (p. 95).

È un romanzo questo, che dà quanto chiede; generoso col lettore quanto esigente di quell'attitudine, di quell'approccio all'esercizio stesso della lettura di una storia che ha a che fare con qualcosa che va al di là del tenere un semplice libro tra le mani. Tendiamo l'orecchio e sentiremo un respiro lontano, un moto ribelle, un'ansia che non è di sola libertà. Così i personaggi de L'albero delle arance amare, nel loro amarsi e cercarsi ricordandosi, arrivano a noi attraverso profumi, parole e echi. Jokha Alharthi continua a dimostrare una profonda simpatia per il modo in cui le donne soffrono e sopravvivono alle vicissitudini di una società che dà loro poca libertà d'azione, riuscendo a sottolineare allo stesso tempo l'universalità dei sentimenti dei suoi personaggi e il contesto culturale unico delle loro esperienze. 

L'albero delle arance amare è una storia di lutto e alienazione, e Alharthi ha sviluppato un tono che cattura quel senso di sospensione nell'atemporalità di un dolore silenziato, per un elegante meditazione sul ricordo e l'oblio. Nel suo mondo, non è solo il futuro a essere promettente; anche il passato ha possibilità e opportunità di cambiamento.

Serena Palmese