La cerimonia dell'addio
di Roberto Cotroneo
Mondadori, 2023
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
quando torno posso sperare che lui sia dentro casa, che lo vedrò ancora seduto in poltrona; posso illudermi che sia entrato con la sua chiave e sia seduto in soggiorno. Ma se chiudo con le mandate e poi le ritrovo al mio ritorno, so, prima ancora di aprire la porta, che non ci sarò. (p. 50)
La cerimonia dell'addio è, prima di diventare tale, una cerimonia dell'attesa. Una cerimonia in cui «tutto è solenne», come scrisse Roland Barthes alla voce Attesa in Frammenti di un discorso amoroso, che non è uno dei testi citati da Cotroneo alla fine del romanzo, ma che è invece un testo a cui ho molto pensato leggendo questo libro.
All'assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l'altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell'allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos'è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura. (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2001 p. 35).
Anna è angoscia pura. Il romanzo ci immerge nel tempo insostenibile del suo lutto imperfetto, non elaborabile. Ed Amos? Sempre Barthes scriveva che «l'essere che io aspetto non è reale» e, difatti, Amos non è reale, non è nemmeno perfettamente raffigurato; Amos è l'Altro, l'Assente. E, se è vero, continuando a citare Barthes, che «storicamente, il discorso dell'assenza viene fatto dalla Donna», Cotroneo sceglie di indossare un io narrante femminile per raccontarci la straziante vita di chi attende.
«Devo dirti una cosa. Forse lo sai anche tu, ma trovo brutto e irrispettoso che alcune tue vecchie colleghe ti chiamino Penelope». La maldicenza di farmi diventare una donna che aspetta, dopo uno stupore iniziale, mi mise di buon umore. Se fosse vero che sono Penelope, allora è sicuro che lui tornerà. Ma come potrei riconoscerlo? (p. 57)
Ma Anna è davvero una Penelope che aspetta il suo uomo o, forse, la sua è una dimensione non solo esistenziale, ma ontologica, di chi attende la manifestazione dell'Altro? Se è vero, come dice Cotroneo citando Platone, che lo slancio dell'anima amante parla per enigmi, La cerimonia dell'addio è fatto della stessa sostanza di cui è fatta Anna: è un romanzo che parla per enigmi. Come tale, l'enigma non ha una soluzione e il romanzo è davvero un'opera aperta, che consente al lettore di tentare varie vie ermeneutiche.
L'attesa di Anna, la paura di non riconoscere o di essere distratta, addormentata nel momento in cui il suo sposo ritorna, mi ha anche fatto pensare alla parabola, contenuta in Mt, 25, 1-3, delle vergini che attendono lo sposo con le lampade ad olio accese. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. Quella di Anna è una veglia? È un'apertura escatologica verso un altrove? Amos è il suo Messia che ritornerà a dare un senso all'esilio di chi è rimasto su questa terra? Anna è, come i cipressi che appaiono con il secondo io narrante (o autore?) una sentinella della memoria.
La vita di Anna ha un tempo diverso dalla vita dei vivi, come sagacemente le dice la psicoanalista a cui si è rivolta. Anna smette di fare quello che fanno i vivi: cambiare. Ogni suo giorno è fermo al giorno della sparizione di Amos. Anche la trama è ferma. È un dialogo con se stessa, un intreccio di memorie; un labirinto di segni è quanto rimane ad Anna: i libri di Amos, le sue sottolineature, gli appunti, le cartoline. Un universo di significanti senza più significato. Amos credeva che le parole generassero il mondo. Allo stesso tempo non vi è un mondo al di fuori delle parole, perché tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro, come ricorda Amos citando Borges.
Eravamo seduti a un caffè che dava su piazza Mantegna, dove palazzi e chiese sono testimonianza della grandezza di artisti e architetti. «Tutto questo sarebbe un testo?» dissi indicando fuori. «Si parte sempre da un testo[...]». (p. 46)
E, se davvero nomina nuda tenemus, Anna è un testo come lo è Cotroneo che fa il suo ingresso nel capitolo 20, per chiederci
Davvero si può ancora credere che un romanzo obbedisca all'incantamento e tenga fuori l'autore fino a renderlo soltanto un demiurgo che ordina i fatti e i caratteri? O c'è dell'altro? (p. 117)
Questa domanda, che a me appare la più coraggiosa che uno scrittore possa farsi, ha nel romanzo La cerimonia dell'addio la sua risposta.
Sono uscito da casa. Ho passeggiato dentro una domenica vuota, ho pensato che dopotutto l'amore è il gioco più instabile che ci sia. La fuga dinanzi alla vita non libera dalla legge dell'invecchiare e del morire. Sulla strada dove ho abitato per quindici anni con Federica e i nostri figli non ci sono più i pini marittimi che dividevano la carreggiata. Avevano radici superficiali, erano balia del vento. Li hanno sostituiti con i cipressi: sentinelle della memoria. (p. 124).
I pini marittimi, simbolo della felicità coniugale, erano nella Grecia antica consacrati a Rea, che simboleggiava l'unione degli opposti. I pini marittimi non ci sono più nel luogo in cui Cotroneo (narratore) abitava e non ci sono nemmeno nella vita del narratore di secondo livello (Anna), che con l'apparire del cipresso, deve prendere commiato dall'attesa. L'assenza ben sopportata è diventata oblio ed addio. Questo addio è presagito e coadiuvato dall'incontro di Anna, ormai molto anziana, con un vecchio pianista (fantasma più dell'Autore che della narratrice). Sono delle pagine molto belle, in cui Anna trova le parole per dire il suo dolore, in cui si parla di Nohant e delle tortorelle, di Chopin.
Il pianista dice ciò che nessuno aveva ancora detto ad Anna-Penelope:
La fedeltà a quell'amore, a sé stessa, non è mai una virtù, non è mai una disciplina. È stata un'arroganza che ha tolto la parola a tutti. Se lei è così perfetta, nessuno avrà il diritto di farle cambiare idea. (p. 145)
«Well? Shall we go?» «Yes, let's go». They don't move. Dicevano Vladimiro ed Estragone nel dramma di Beckett. Ma Amos non è Godot e neppure i Tartari che Drogo attende inutilmente. L'attesa, alla fine, produrrà un movimento.
Nell'ultimo capitolo, quando l'autore (o forse il secondo narratore) torna a parlare, ascoltiamo con rispettoso silenzio un altro addio. «Ma nel passato, quelli che ami non muoiono». Nemmeno nella letteratura.
Coraggioso e struggente, La cerimonia dell'addio riesce ad essere la più intima e proprio per questo la più universale delle storie. E alla fine, non ha senso domandare dove finisce il romanzo e dove comincia la biografia, dove la maschera e dove il viso, perché non vi è un fuori-testo. Lo dicevano Borges, Calvino. E Cotroneo.
Deborah Donato