di Paolo Cognetti
Einaudi, ottobre 2023
pp. 128
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Luigi era uno che tendeva a pensare che nella vita nessuno cambiasse davvero, però sette anni erano tanti. Forse si poteva cambiare, almeno un po’, in sette anni così lontano da casa? (p. 24)
Due fratelli, una donna, un animale che forse è un cane selvatico forse un lupo e che se ne va in giro per la valle a uccidere cani maschi. Una vecchia casa isolata, eredità che non vale niente o potrebbe invece essere una nuova possibilità. Le distanze, fatte di chilometri ma anche di parole e gesti che mancano. Gli abissi dentro a un bicchiere e qualcuno per cui restare ancorati alla vita. La «vita reale», che quando la trovi è ben diversa da quella sognata ma vale anche un po’ di più, nonostante tutto.
Paolo Cognetti torna con un romanzo-racconto malinconico e intenso, pieno di crudeltà e bellezza, in cui si avverte l’eco di una tradizione cui è da sempre fortemente legato, la cultura nordamericana, i luoghi che sono diventati la sua dimensione letteraria privilegiata.
Un romanzo, l’etichetta indicata dall’editore e forse la più giusta davvero, ma la postura è quella del racconto, a cui spero prima o poi Cognetti faccia pieno ritorno, perché è quello il luogo del suo incanto letterario.
Giù nella valle, in libreria da oggi per Einaudi, è conferma di un sentire, dell’interesse verso determinate tematiche e spunti ma sempre rinnovati, esplorati da nuove angolature, con risultati ogni volta differenti. Se è vero come dicono alcuni che Cognetti scrive sempre di montagna e di rapporti fraterni, il suo non è ripetersi, non è scrivere ancora e ancora la stessa storia: è aver trovato il proprio centro e le innumerevoli narrazioni che da lì possono irradiarsi. Non scrivevano in fondo allora la stessa storia Yates e Dubus, le crepe sulla facciata, l’alcol, il crollo del sogno che si scontra con la quotidianità della vita adulta, le relazioni che implodono? Non era sempre il Sud il luogo privilegiato, personaggio vivo e palpitante, delle storie di Flannery O’Connor o Eudora Welty?
Quando leggiamo Cognetti non è probabilmente il desiderio di scoprire mondi nuovi e storie immaginifiche: quello che ci fa soffermare sulla pagina è la parola cesellata con cura artigiana, scalpello alla mano; è l’indagine dei sentimenti umani, le relazioni, quasi mai come appaiono in superficie; sono gli uomini e, inaspettatamente, le donne che l’autore con poche pennellate ha sempre saputo rendere particolarmente vivi, reali; era la città, oggi è la montagna, un luogo che è parte integrante della storia e la modella, protagonista quanto gli esseri viventi che la popolano.
Giù nella valle è forse finora il suo testo più malinconico, dove oscurità e bellezza si rincorrono sulla pagina. Ci senti dentro la violenza del quotidiano di un certo Chris Offutt, ma anche la lingua asciutta e misurata e lo scandaglio dell’oblio di Elena Varvello, lo sguardo rivolto alla short story nel costruire una storia che è per lo più sotterranea, che risiede negli spazi vuoti, nei silenzi che intercorrono tra gli scarni dialoghi. Un libro molto “americano”, molto di Cognetti. Non fatico a immaginarlo tra le mani di lettori che poco o nulla hanno in mente della Valsesia, la valle che racchiude questa storia, ma nemmeno a vederlo trasposto in versione cinematografica.
Del racconto c’è, come si diceva, una certa postura autoriale che attraversa tutta la narrazione e le dà il ritmo, la tensione crescente; pezzi della storia si rivelano sulla pagina, ma è anche nel non detto, in quello che resta sommerso e in apparenza irrisolto. Ecco, “irrisolto”: se abbracciamo l’adagio per cui il romanzo mira a rappresentare una vita intera, il racconto invece un frammento, un particolare di quella vita, Giù nella valle si avvicina moltissimo alla forma breve anche in questo senso.
Delle vite dei due fratelli Luigi e Alfredo, di Elisabetta (la moglie di Luigi, incinta del loro primo figlio), ciò che vediamo è appunto un frammento, seppur piuttosto ampio, ed è lì, in quelle increspature che lo sguardo di Cognetti si ferma e modella la storia.
Cresciuti in Valsesia, ai piedi del Monte Rosa, rimasti orfani: la madre l’hanno persa quando erano ancora bambini, il padre invece si è ucciso l’anno prima, per non doversi consumare un giorno dopo l’altro per colpa della malattia che l’ha colpito. Luigi dalla valle non se n’è mai andato, ci ha messo radici come i due alberi che il padre aveva piantato tanti anni prima, quando lui e Alfredo erano piccoli e che ora se ne stanno lì, accanto alla casa abbandonata, nella zona più isolata di Fontana Fredda. Un larice per Luigi, un abete per Alfredo, vicini abbastanza da riuscire a crescere senza soffocarsi l’uno con l’altro, i rami intrecciati.
Quello che non so, e che non ho mai chiesto a papà, è perché quella volta abbia scelto il larice per mio fratello e l’abete per me. Eravamo troppo piccoli perché vedesse qualcosa in noi, perciò forse era solo un intuito da parte sua. O chissà, una benedizione. Tu, larice, sei destinato a crescere al sole, a tirarti su in alto, duro e fragile, e ondeggiare nel vento. Tu, abete, invece crescerai ombroso, ma forte e resistente, protetto dagli aghi anche in inverno, adatto al gelo. (p. 52)
Anche Elisabetta dalla valle non se n’è più andata e quello che un tempo era il luogo delle vacanze agostane insieme ai genitori è diventato presto casa e famiglia, con Luigi. Alfredo invece dalla valle è scappato, inquieto e in perenne fuga; un’aggressione, il carcere, poi una nuova vita in Canada come taglialegna. Ma adesso è tornato per regolare una questione di eredità e, forse, sarà l’ultima volta che lui e il fratello si vedranno.
Intanto, nei boschi, quello che ancora non si sa se sia un lupo o un cane selvatico sta uccidendo diversi esemplari di cani maschio, mentre si sposta insieme a una femmina, mettendo in fermento i cacciatori e non solo, pronti a sistemare da soli la faccenda.
È una valle alle soglie dell’inverno, piovosa e fredda, dove si intrecciano segreti e parole non dette, la luce che penetra a fatica per un attimo troppo fugace. Luogo e vicenda, storia e modo di raccontarla sono strettamente ancorati l’uno all’altra. Cognetti tesse in poco più di cento pagine una trama antica, creando personaggi vividi e reali perché fatti di carne e sangue, luci e, soprattutto, ombre; non c’è netta contrapposizione tra buoni e cattivi, luce e oscurità; ci sono ben poche concessioni letterarie e moltissima realtà, quella vita vera che Elisabetta cercava con Luigi e che le è piombata addosso tutta insieme. Messi via gli anni milanesi, gli studi e la famiglia, ha trovato qui la sua dimensione, accanto a un uomo che ama e l’ama a sua volta ma che è anche fatto di abissi:
Lei adorava vederlo lavorare il legno. Il legno era il suo elemento, il suo lato al sole. Il lato all’ombra invece, come le è toccato scoprire presto, aveva a che fare con l’alcol. L’alcol aveva a che fare con suo padre e suo fratello. (p. 75)
L’alcol ha a che fare con tutti loro: Alfredo, Luigi, il padre, gli avventori dei bar in quella anonima landa dai tratti desolati. Anche Luigi soffre della malattia di famiglia, non c’è, si diceva, netta contrapposizione tra il fratello buono e quello malvagio, l’uno in qualche modo è parte dell’altro e viceversa. Ci sono le scelte, però.
Lo sai cosa vorrei, invece?, disse Alfredo. Cosa? Un bell’abbraccio da mio fratello. O anche fare a pugni, scegli tu. Ma qualcosa di vero. (p. 43)
Ci sono le distanze diventate ormai insormontabili e ci sono le scelte, appunto. Di affogare sempre di più in un bicchiere, ubriachi per giorni; gli scatti violenti, la rabbia, la fuga. Oppure fermarsi, tornare indietro. Alla vita, alla pace.
Con poche pennellate precise Cognetti ci racconta anche di un matrimonio e dei suoi fantasmi, della perdita e di chi sceglie di starci accanto, forse per sempre, forse solo per il momento, ma che di certo conosce tanto la luce quanto le ombre e, in qualche modo, prova a farsene carico.
Negli anni è arrivata ad abituarsi a queste notti solitarie come a una parte del suo matrimonio. Ha un marito che a volte dorme con lei, e a volte nel bosco. Elisabetta se ne stancherà, un giorno non più lontano. (p. 88)
In quell’ultima frase, ancora, la postura del racconto che vado dicendo fin da principio.
E poi la valle, le acque inquinate della Sesia, quelle stesse che tanti anni prima hanno visto nascere la storia di Luigi ed Elisabetta, quelle in cui lei si cala ogni giorno nonostante il freddo, una sorta di rito ancestrale – e qui sì, la parte un po’ letteraria cui accennavo prima.
Ritornano dopo La felicità del lupo, il romanzo che precede questo, ancora un lupo – che forse lupo non è – e gli alberi, ma anche Fontana Fredda, la Holt di Cognetti: nel bellissimo capitolo d’apertura è proprio la femmina che si mette al seguito di quell’animale selvatico a prestarci il suo sguardo, portandoci nei meandri della valle, tra istinti e un antico ricordo di contatto umano. Peregrinando da un luogo all’altro, a caccia sempre di un altrove che è nella sua natura. Simile a quello che fa Alfredo, tra i boschi del Canada, via dalla Valsesia, poi di nuovo in fuga. Gli alberi, al contrario del lupo, hanno radici ben piantate nel terreno, crescono dove cade il seme; ecco allora quanto violento e simbolico il gesto dello sradicamento. Ci sono anche qui come nel La felicità del lupo personaggi che la montagna ce l’hanno nel sangue, intrecciata alle fibre da generazioni, chi invece l’ha scelta, per ragioni diverse, come Betta o la giovane bibliotecaria al suo primo inverno in valle. È proprio la valle la custode di tutte queste storie che libro dopo libro vengono fuori, ora luce ora oscurità, che Cognetti osserva e modella per raccontarci gli uomini e le donne, le difficoltà delle relazioni, le increspature, che non conoscono epifanie ma piccoli, insignificanti momenti uno in fila all’altro e che compongono la vita. E come ne Le otto montagne, non ci sono eroi ma nemmeno antieroi assoluti: ci sono solo gli uomini. Alcuni che restano.
Debora Lambruschini