Denti di latte
«Incastrare e manipolare i sogni, perdersi in un'aldilà corporeo. Possiedo come un dono, la capacità di entrare immediatamente in remoto e staccare con tutto quello che non sono io appena entro in un letto. [...] E più tutto diventa florido e ricco di dettagli, più il sonno che verrà si trasforma in una possibilità creativa. Per poter dormire un sonno creativo questa è la mia porta d'accesso» (pp. 9-10).
Lo racconta l'attrice, scrittrice e performer Silvia Calderoni nel suo primo romanzo Denti di latte, edito per Fandango: vi troviamo i pensieri, i sentimenti, le paure e i sogni ad occhi aperti della piccola Silvia alle prese con la vita tutta. Mentre Silvia affronta le sfide di un mondo ancora troppo grande per il suo corpo minuto e snello, c'è un'altra presenza che le fa compagnia e che si chiede quale sia la funzione di ogni cosa in quel mondo così strano e diverso da sé. Una piccola figura, ancora più piccola della Silvia bambina, con la quale la protagonista, di tanto in tanto, prova a riconoscersi e farsi un nome. Lei è una bambina dai capelli corti e biondi, e anche l'altra, o forse è l'altra ad essere uguale a Silvia, seppure in questo giochi di ruoli non è chiaro chi abbia la meglio. Nella cameretta di Silvia c'è un letto a ponte e una scrivania ad angolo, un diario, alcuni quaderni, colori, penne e matita e per una bambina, l'esistenza di quell'angolo, è la lente a laboratorio da cui osservare quei genitori silenziosi troppe volte assorti nell'ordinaria consuetudine quotidiana. Silvia è una bambina che osserva tutto con attenzione, inventa giochi con le più svariate scuse, si immagini in posti nuovi mentre a testa in giù è seduta sul divano di casa e affronta ogni mossa come una scommessa.
Nel racconto di Silvia Calderoni tutto è presentato come un ermetico mondo infantile, descritto con grande precisione, in cui ogni azione, anche la più piccola, è fonte di emozioni molto forti. Ogni ricordo è iscritto nel mondo col fine di fissarlo: le descrizioni degli ambienti, degli oggetti, i loro colori e odori vengono descritti con l'abilità teatrale che è propria dell'autrice, e come succede per Georges Perec in Specie di spazi, l'approssimarsi di Calderoni allo spazio pone come premessa metodologica la necessità di descriverlo. La sua lente di ingrandimento mette a fuoco anche i particolari più insignificanti, estrae dal contenitore che è lo spazio tutto ciò che vi è contenuto, perché solo in questo modo potrà padroneggiarlo, trasfrormarlo in qualcosa di comprensibile e attraversabile. L'analisi del dato spaziale, coincide per Silvia in un'indagine del quotidiano, con il fine di intraprendere un'investigazione della vita a tutti i livelli, nelle sue pieghe nascoste, nei suoi anfratti trascurati o rimossi, persino tra le pagine di una diario in cui quella bambina insolita scopre di non esserci. In Denti di latte l'interrogazione dell'infra-ordinario non si limita all'osservazione e alla descrizione degli oggetti nello spazio, ma è anche una rassegna dei gesti, delle abitudini e dei rituali che contraddistinguono la Silvia bambina nel suo di spazio. Per Perec lo spazio è un dubbio in continua designazione. Non è mai di qualcuno, mai viene dato, bisogna conquistarlo.
E così è per Silvia, che parte alla scoperta di luoghi insoliti in cui la realtà si presenta come uno spaventoso oggetto di studio, perché tutto è dominio di proiezioni di sé, proiezioni che - nell'impossibilità di comunicare con i propri simili - offrono la possibilità di trovare quell'interlocutore che nella realtà manca. Silvia bambina abita e oscilla tra due regni, il primo, quello della veglia, il secondo quello del sonno e del sogno, e in entrambi crea minuziosamente un mondo a cui aggrapparsi dove fantasia e ricordi si fondono e le permettono di salvarsi dal caos naturale e della banalità di un'infanzia non conforme:
«Nel momento dell'impatto il caos del suono si trappa e tutto si calma. Il mio corpo si rilassa e piano, mi ritrovo sul fondo della vasca. Nessuno sopra si è accorto che non sono riemersa. Si sta bene qua giù. Anche il freddo è più gentile. [...] Mi sono talmente allenata a quel dentro fuori che l'ossigeno non è più un problema. Io, senza galleggiante legato alla schiena, senza quello sbraitare da fischietto, vado a picco, a fondo, con grandissima facilità, senza zavorra e, se voglio in quel basso, ci rimango per sempre. Io qua già, mi rilasso, mi nascondo, mi rifugio nella quiete degli abissi» (pp.57).
Gli altri, gli adulti, sono figure che non hanno ampio spazio nella narrazione: il papà (lui) è quello che trova più attenzione nel racconto, la madre (lei), malinconica, è sempre fuori per lavoro. Accresce, nella debole rappresentazione di questi personaggi estranei, la consapevolezza di ritrovarsi adulti senza più quell'affetto che è solito circondare un piccolo corpo esile di bambina. Quella bambina lo sa, che stremata, piangente, nella stanza del suono dei suoi singhiozzi con il cuscino soffocato dalle mani, ogni bene scomparirà e lei non potrà far nulla affinché non accada.
Denti di latte non è solo un romanzo di formazione, delicato ed emozionante, ma un viaggio intimo che velatamente fa riferimento anche alla percezione del proprio corpo. Silvia, infatti, si sdoppia cercando di riconoscerci in quell'immagine allo specchio che il più delle volte non distingue, e mentre prova a darsi un senso, si crea un'immagine di lei difficile da accettare come unica e permanente. Disordinare. Confondere. Oltrepassare i confini per decostruirli:
«Attorno a me, negli altri ombrelloni, tutte le bambine della mia età indossano o costumi interi o a due pezzi. Questo sfoggiare triangolini in coordinato mi fa sentire in imbarazzo. Non mi imbarazza la mia nudità, mi imbarazza il loro essere coperte. Ma lui su questo è stato categorico. Niente tette, niente reggiseno. Sono certa che se non fosse per i due nuovi brillantini che porto ai lobi delle orecchie tutto il mondo che non siamo noi, mi penserebbe bambino e non bambina» (pp.110-111)
Seppure sembri un romanzo autobiografico e nonostante ci siano molti elementi reali dell'infanzia di Silvia Calderoni, più volte raccontati anche in pubblico, è chiaro che quelle del racconto sono persone, comparse in un mondo e in un tempo che non appartiene più alla Silvia presente. L'autrice infatti racconta di aver permesso ai suoi personaggi un'atipica improvvisazione che ha dato via via una direzione sempre diversa dal ricordo, anche tradendolo; e scrive di aver lavorato al romanzo nel momento in cui, sull'onda di quella improvvisa popolarità successiva al lavoro Overture of Something that never ended con Gucci sotto la direzione di Alessandro Michele, incontrava giornali che cercavano di costruire un personaggio programmato a divorare tutto ciò che con fatica lei stessa ha costruito in venticinque anni di carriera.
Silvia, che così continuo a chiamare come fosse sorella, amica, consigliera e compagna, in terre che insiste a percorrere, sempre sotto l'occhio deflagrante del mondo, si racconta e ci racconta - noi tutti pavidi da medaglie d'oro - come solo lei potrebbe, e come solo lei saprebbe. Il suo primo romanzo è un ottimo esordio, la narrazione non tradizionale dà a chi legge una grande capacità emotiva, ma non è Denti di latte a consacrare Silvia Calderoni come artista raffinata e intelligibile. Quel segreto è lei, sei tu. Sono io.
Poi c'è un uccello che batte fortissimo le ali nel torace e toglie il fiato, c'è il sabato che il è il giorno delle pulizie, l'aspirapolvere. C'è una piscina, un abito da sposa, un ospedale, il cartamodelli di Burda, Dio, la morte, un amore. C'è tutto per condire una vita insolita, perché solo la bellezza può perturbare e solo certe Silvie ci permettono di interrompere il gioco, azzerare il punteggio e ripartire dal via.
Serena Palmese