L'ode a Harlem continua e somiglia a un incendio: "Manifesto criminale" di Colson Whitehead


Manifesto criminale
di Colson Whitehead 
Mondadori, settembre 2023

Traduzione di Silvia Pareschi

pp. 385
€ 22,00 (cartaceo)
€ 11,90 (ebook)

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Capivi che la città stava andando in malora quando anche l'Upper East Side cominciava a fare schifo. Con la coda dell'occhio, Carney vedeva un po' dappertutto i segni del declino: graffiti incompiuti sulla saracinesca di una farmacia chiusa; un gruppo di bidoni traboccanti di spazzatura non raccolta; i resti di un parabrezza sfondato, quadratini di vetro sull'asfalto come denti buttati giù da un pugno. Erano scolpiti nelle facce degli abitanti del quartiere, dove i sorrisetti compiaciuti erano stati sostituiti da un'espressione più avvilita, e dietro gli occhi si scopriva una vaga e informe disperazione invece della solita allegria spocchiosa. (p. 42)
Harlem è una partitura complessa nei romanzi di Colson Whitehead. 
Complessa da suonare, se fosse una performance jazz, e complessa anche da ascoltare.
Ha il ritmo energico di un'improvvisazione vigorosa ma anche le note tristi di quelle vite che in alcuni punti si sono spezzate. E passa dall'una all'altra in poche note. 
Il ritmo di Harlem Whitehead lo aveva già descritto nel precedente omonimo romanzo (qui la recensione), primo di una serie dedicata a un quartiere di cui l'autore sembra conoscere ogni angolo e dove pare lasci abitare varie parti della propria anima (sicuramente quella letteraria). 
Qui avevamo fatto la conoscenza di Ray Carney, commerciante di 125th Street che vende mobili nel negozio di famiglia. Una vita normale, una moglie, una figlia, qualche strano traffico e qualche magagna da risolvere e, a un certo punto con inaspettata accelerazione, una discesa in una spirale criminale che sembra essere venuto a riprenderselo dal passato. Una criminalità familiare, di nome e di fatto. 
Carney torna come protagonista di Manifesto criminale, l'ultima prova di quello che è stato titolato Narratore d'America per la sua capacità di ritrarre una nazione sempre in bilico tra umori passati e presenti. 

Stavolta il protagonista prova a rigare dritto, memore di quanto è accaduto quando ha permesso alla malavita di intromettersi nella sua, di vita.
Vive solo del suo onesto lavoro e si dedica alla famiglia mentre attorno a lui Harlem sembra collassare nel declino: la spazzatura è ovunque, l'inquinamento stringe tutto nella morsa di una grande macchia gialla, il lavoro di ogni giorno è interrotto da scioperi e contestazioni, polizia e organizzazioni politiche nazionalistiche si affrontano in scontri aperti.
Mentre il quartiere dal ritmo inarrestabile sembra mangiarsi l'Upper East Side, i personaggi di questa storia - i vecchi e i nuovi - osservano il loro mondo dai viadotti, dai tunnel, dalle carrozze delle linee metropolitane, dai marciapiedi e dalle saracinesche un po' abbassate. Da tutte queste prospettive le storie degli abitanti di Harlem si inabissano l'una sull'altra
Il lettore però sa che Carney troppo tranquillo non sa stare, anche perché c'è una legge non scritta che dice che "il delinquente resta delinquente" e che il giorno della ricaduta in un modo o nell'altro arriva sempre. 
Per l'esattezza nel suo caso è il giorno in cui sua figlia lo prega di procuragli un biglietto per l'ambito concerto dei Jackson 5 e allora lui decide di rispolverare un vecchio contatto in polizia, il detective Munson. 
Eccolo che ricomincia, il ritmo della partitura criminale fatta di commerci loschi, malaffare, corruzione, spaccio, politica dall'animo nero.

Rispetto al primo romanzo in questo pezzo di storia c'è un'aria più cupa, la sensazione tangibile che l'inganno sia più di una dinamica sociale radicata: una componente inscindibile dall'essere umani. 
Molte recensioni hanno parlato di un senso di gloria che permane. Io ho letto qualcosa di diverso: se gloria c'è, è una gloria dolente, l'ode a un mondo che si affanna senza trovare riposo. Un'ode che piuttosto somiglia a un incendio
Mentre entriamo in contatto con la nuova traiettoria esistenziale di Carney, dei suoi amici e dei suoi nemici, a questa gente di Harlem impariamo a perdonare molte cose. Forse non a volergli bene davvero perché molti di questi personaggi paiono in fondo un po' intimamente inaccessibili. 
Colson Whitehead si conferma sempre grande in un'arte non facile: quella di costruire narrazioni corali in cui non si trascura la singolarità di nessuno e nessuno viene sacrificato sotto il peso ambizioso di un romanzo che sia storico nel senso più invadente del termine. 
Anche questo secondo inno a Harlem non raggiunge i vertici epici de La ferrovia sotterranea e de I ragazzi della Nickel, storie in cui il narratore riesce anche nel miracolo di rendere ancora più duttile la materia del tempo. Però si gode della capacità di scrivere i bianchi e i neri delle vite dei personaggi, in quello strano equilibrio tra la gangster story e il dramma popolare born in the USA.


Claudia Consoli