Mai più Vajont 1963/2023. Una storia che ci parla ancora
di Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona
di Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona
Fuoriscena, 2023
pp. 176
€ 16,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Mai più Vajont. Un monito, un imperativo che non ha bisogno di sottolineature ed enfasi, che racchiude una speranza e un rimprovero per ciò che ancora, a distanza di sessant’anni, “ci parla”: così recita il sottotitolo al volume edito da Fuoriscena, nuovo marchio del Gruppo RCS che con questa prima pubblicazione dà avvio a una “casa editrice d’inchiesta”, che si occuperà di giornalismo investigativo, saggistica d’intervento e narrazioni civili.
Mai più Vajont è a cura dei giornalisti Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona, che raccontano il disastro avvenuto nella valle del Vajont sessant’anni or sono, il 9 ottobre 1963, una data rimasta impressa nella memoria di tutti, non solo (si spera) come anniversario da riportare a galla ogni dieci, trenta, cinquant’anni, a ogni cifra tonda, ma come promemoria delle esecrabili successioni di azioni umane che conducono a stragi e disastri, altrettanto umani. Ciò che è da ricordare è proprio il monito che dà titolo al libro, a caratteri cubitali sulla copertina, di nero e di rosso, i colori della terra e del sangue, e che ci riporta a pensare che invece altri Vajont sono successi e continuano ad accadere.
La storia (neanche troppo lontana da noi) continua a ripresentarsi, gli «allarmi non vengono ascoltati, fino all’ultimo si chiudono gli occhi e il disastro arriva alla fine di una storia […] dove a prevalere sono le ragioni dell’impresa, […] dei soldi. È il modello che sta dietro la tragedia del Vajont» (p. 42). Un modello, sì. Che è replicato, che continua a essere riproposto a scapito del benessere dei cittadini, della loro stessa vita. Il caso del ponte Morandi, i terremoti degli ultimi trent’anni, l’alluvione recentissima in Emilia-Romagna… Nel suo bel contributo, Riccardo Iacona riporta alcune testimonianze, racconta con fermezza e unisce i punti, dal 1963 a oggi, per ricordare al lettore che il filo non si è ancora purtroppo spezzato, che oggi più che mai, osservando i cambiamenti climatici che ci circondano, quella del Vajont è una lezione da tenere a mente.
Un libro, Mai più Vajont, che pur ripercorrendo più volte le vicende di quel giorno di morte, non si fa mai ripetitivo. Anzi, scava a un livello sempre più profondo della tragedia, ne ripropone gli avvenimenti, le angolature più scomode, i dettagli dolorosissimi di una spianata deserta, lì dove un tempo esisteva un paese, spazzato via dalla faccia della terra «in tre minuti d’apocalisse» (p. 195).
Paolo Di Stefano rievoca i fatti, le inchieste, le interviste, menziona gli articoli di giornale dell’epoca, ed è già tutta qui, basterebbe, la sofferenza di una verità che dovremmo rammentare più spesso di un anniversario. Ma le pagine del libro non si fermano ancora, continuano a turbare e a far piangere, come aveva turbato e fatto piangere nel 1997, in diretta televisiva, l’ardente monologo teatrale di Marco Paolini, la sua Orazione civile, il racconto del Vajont. Come se al suono ritmico del treno che l’attore bellunese imitava, quasi scandendo i secondi di un disastro imminente, si accordasse la trafila di articoli delle maggiori testate dell’epoca che si susseguono in questo volume: i testi di Giorgio Bocca, di Dino Buzzati, di Giampaolo Pansa, Alberto Cavallari, Giuseppe Longo e parecchi altri, insieme soprattutto alle inchieste di Tina Merlin, la giornalista bellunese che per prima e per anni aveva denunciato le colpe e i soprusi della Sade per la costruzione della diga Vajont. Lei aveva avvertito delle frane e dei boati che già da tempo squassavano il terreno della montagna, che i montanari ertani udivano e per cui protestavano, restando non solo inascoltati ma vittime di espropriazioni ingiuste, di uno Stato garante dei più forti.
I reportage delle più importanti firme del tempo, riuniti tutti in queste pagine, ritmicamente ci accompagnano di anno in anno a riscoprire quella vicenda, il disastro di duemila morti, spazzati via da 25 milioni di metri cubi d’acqua, sollevati in un’onda immensa dalla caduta, in soli venti secondi, di 260 milioni di metri cubi di roccia nel lago retrostante la diga. Un sasso che cade in un bicchiere pieno d’acqua e l’acqua che si riversa su una tovaglia in cui viveva indifeso un paese intero, la descrisse così, con sconcertante semplicità, Dino Buzzati sul «Corriere della Sera» dell’11 ottobre ’63. Ed era stato previsto.
Viene tracciato un percorso chiaro, netto, crudo degli eventi, per far emergere le responsabilità, per ricordare che l’imprevedibilità naturale non può essere additata quando le crepe sono già viste e ignorate, quando la speculazione economica ha un valore superiore alla vita delle persone.
Il libro non si limita a narrare quei minuti di inferno, «tra fango e silenzio» (p. 79), che solo pochi superstiti sono rimasti per raccontare, perché sul dolore non c’è mai molto da dire. Ma espone i fatti antecedenti e posteriori: ciò che ha scatenato la gigantesca frana, le denunce dei montanari anni prima, l’ignominia umana, i collaudi non portati a termine, l’esperimento dell’Università di Padova che fu nascosto, i morti dopo il disastro - di chi non ha retto le ripercussioni psicologiche dell’accaduto, di chi ha perso tutti i familiari in una notte e si è dato al bere, nella solitudine - e la difficoltà di ricostruire su «tutti quei buoni sentimenti, su tutta quella pietà» antiquata, concretamente inutile, sulle lacrime di un governo che ha soffocato i superstiti, che non ha lottato per rendere loro giustizia.
Non è un libro intriso di pietismo, ma un libro potente che ha un titolo-monito, che scrolla la memoria e si spera possa scrollare le coscienze di tutti, per spezzare il filo del «modello tragedia del Vajont» (p. 49).
Federica Cracchiolo
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