Un romanzo ottocentesco che ha già il sapore psicologico e moderno del Novecento: "Fame", il capolavoro di Knut Hamsun, si addentra nella follia della miseria




Fame
di Knut Hamsun
Marsilio, settembre 2023

Traduzione di Maria Valeria D’Avino

pp. 208
€ 15 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
 
Era un tormento, una desolazione senza pari essere così impoveriti. Che umiliazione, che disonore! E di nuovo mi misi a pensare agli ultimi spiccioli di una povera vedova che avrei voluto rubare […] Per consolarmi e salvare la mia innocenza mi misi a cercare ogni possibile difetto in quella gente allegra che mi sfilava accanto. (p. 109)
Fame è l’opera che condusse Knut Hamsun, pseudonimo di Knud Pedersen, al successo. Vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1920, lo scrittore norvegese di origini umili, che soffrì la fame e l’indigenza, dà vita alla fine dell’Ottocento a un personaggio su cui si abbatte la violenza della miseria. Fame è un titolo che non ha bisogno di suggerimenti per essere compreso e in queste quattro lettere si riassume bene il tono conciso e infausto del romanzo, sebbene possa apparire una storia lunga e vuota, che avanza pigramente e in cui non capita granché. Si tende spesso a ricercare nei libri l’eccezionalità degli eventi, un susseguirsi frenetico di avvicendamenti e fitte tessiture di dialoghi tra vari personaggi. Qui è quasi esclusivamente il protagonista a parlare, spesso con se stesso, e i suoi pensieri nervosi, resi folli dalla fame si sciorinano lungo tutte le pagine, senza darci tregua.

Uno scrittore non riesce a trovare di cui vivere, quel che scrive cerca di venderlo a un giornale per pagare l’affitto, mettere qualcosa nello stomaco, ma non basta mai, spesso gli scritti sono inutilizzabili, la miseria e la pancia vuota non aiutano la fantasia né le doti intellettuali del nostro personaggio, che dopo poco perde la ragione, ma sempre mantenendo la lucidità di ciò che soffre.
Non sappiamo da dove è originato tutto, dal momento che il racconto comincia in medias res: «al tempo in cui vagavo affamato per Kristiania, quella città singolare che nessuno abbandona senza portarne i segni…» (p. 9). Il protagonista, lo conosciamo già povero, già esasperato dalla fame, eppure ci convinciamo che qualche cosa deve essere avvenuta, che non si può diventare così immiseriti senza causa, soprattutto che non lo si può rimanere se si hanno delle facoltà d’intelletto e di generosità.

Più si va avanti nel testo, più ci si addentra nella spirale travagliata e convulsa che è specchio della mente del protagonista e che il lettore stesso, affezionandosi a un uomo così penoso e indifeso, vorrebbe spezzare. Pochi altri personaggi s’intravedono, il protagonismo è tutto incentrato sui continui urti che l’io narrante subisce, mentre vaga avanti e indietro per una città, la vecchia Oslo, che non sa accoglierlo. Queste prime righe fanno intendere che la città ha una sua parte di colpa in quello che seguiterà dopo, che la società urbana è, nella sua meschina modernità, non un rifugio ma un ispessimento delle condizioni sfavorevoli di un uomo.

E lui, con il suo orgoglio, pur invocando Dio per barattare la sua «vita intera per un piatto di lenticchie» (p. 137), rimane rabbioso e tramortito da una consapevolezza finale, che getta via ogni dubbio sulla propria ingenuità:
Dovevo sempre sentirmi superiore a tutto, scuotere la testa con arroganza e dire no grazie? Ecco dove mi aveva portato quel comportamento: di nuovo in mezzo a una strada. (p. 194)
Si ha voglia di urlarglielo per duecento pagine, di lasciare perdere l’innocenza e il riserbo, la vergogna dell’abbrutimento, ma poi cosa rimarrebbe? Ci si aggrappa a una dignità che non è superflua, benché non  concreta quanto una fetta di pane e una bottiglia di latte. In una frase Hamsun riassume bene questa difesa, dell’uomo affamato tacciato di patetica superbia:
Cominciai a singhiozzare di rabbia, lottando con tutta l’anima contro la mia miseria e resistendo eroicamente per non cadere: non avevo intenzione di arrendermi, volevo morire in piedi. (p. 190)
Di gusto un po’ russo e ancora ottocentesco, Fame inaugura un nuovo modo di fare letteratura, a cui gli scrittori d’Europa come Kafka e Mann cominciano a guardare. Si aprono le porte verso un realismo più moderno, già trampolino di uno stile ardito e psicologico che si radicherà nel Novecento. Una scrittura che desta gli occhi e non dà pace, perché scruta dentro a una realtà tenebrosa e gretta, dentro alla mente caotica deformata dalla fame, e che qui invitiamo con passione alla riscoperta e all’immersione.
 
Federica Cracchiolo