La notte rossa
di Rebecca Godfrey
NN Editore, 2023
pp. 464
€ 9,99 (ebook)
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La notte rossa di Rebecca Godfrey si
inserisce nel solco di un genere fortunato, le cui origini si fanno
tradizionalmente risalire ad A Sangue freddo di Truman Capote e che è stato poi sviluppato grazie all’abilità di
autori come Emmanuel Carrère e Nicola Lagioia. Difficile da definire, anche se
alcuni parlano di “romanzo-inchiesta” o “romanzo-verità”, questo tipo di opera
vuole scendere al fondo di casi di
cronaca che sono stati, e rimangono, in grado di turbare e condizionare l’immaginario comune, per il modo in cui
permettono di indagare più ampie tematiche sociali.
Anche la narrazione di Godfrey si sviluppa continuamente in bilico tra il documentaristico, come segnala la nota iniziale, e la restituzione romanzesca. Il caso in cui l’autrice sceglie di entrare, attraverso sei anni di ricerche e interviste ai personaggi coinvolti (non solo i responsabili, ma anche tutti coloro che sono stati più o meno direttamente implicati nelle indagini e nella successiva vicenda giudiziaria), è l’assassinio di una quattordicenne, Reena Virk, avvenuto in seguito a un violento pestaggio, in un benestante borgo canadese, sull’isola di Vancouver, la notte del 14 novembre 1997. Ad essere indagati inizialmente, quando ancora le attribuzioni di responsabilità non sono chiare, sono sette ragazze e un ragazzo, tutti minorenni all’epoca dei fatti. Alcuni hanno alle spalle famiglie spezzate, traumi irrisolti, trascorsi violenti. Di alcuni invece non si riesce a spiegarsi la presenza. Tutti appaiono confusi, contraddittori, spaventati ma conniventi.
Nella ricostruzione minuziosa degli
eventi, risulta particolarmente agghiacciante come l’aggressione e
l’omicidio vengano eseguiti, e successivamente coperti, da un gruppo di
giovanissimi che non hanno, con l’eccezione di uno o due soggetti, alcun
movente specifico; molti non conoscono Reena se non di vista, e sono comunque
guidati da una legge omertosa: «Se va giù uno, vanno giù tutti. Stai col
branco, costi quel che costi» (p. 139). Rebecca Godfrey prova, con la sua
scrittura, a trovare un equilibrio tra l’esposizione dei fatti e l’assunzione
di una focalizzazione interna, variabile
perché di volta in volta calata nella mente dei singoli personaggi, siano essi
protagonisti o comprimari. Questo processo di immersione consente talvolta
all’opera di distaccarsi dalla crudezza della storia, lasciando spazio ai sogni
e alle aspettative dei giovani di View Royal:
Le serate con gli amici racchiudevano promesse. Una ragazza avrebbe ricevuto il suo primo bacio. Un ragazzo si sarebbe sballato per la prima volta, avrebbe guardato il cielo con gli occhi arrossati e sarebbe scoppiato a ridere dicendo che gli pareva un lago. Syreeta si sballava solo di rado, e non le piaceva avere le allucinazioni, ma ascoltava con attenzione chi le raccontava di quegli strani miraggi. Talvolta sembrava allettante vedere il mondo scintillare, spaccarsi o scivolare. (p. 179)
D’altro canto, questo tipo di focalizzazione consente all’autrice di mettere in rilievo uno degli aspetti fondanti, centrali nella sua ricostruzione: lo scarto esistente tra la prospettiva dei giovani e quella dei loro genitori, dei tutori, degli educatori, delle forze dell’ordine.
Solo allora vide Syreeta dal finestrino della volante. Anche lei era dietro un vetro. Si guardarono l’un l’altra dai finestrini delle auto degli adulti. (p. 183)
Nel mondo chiuso degli adolescenti, in cui il confine tra colpevoli e complici è labilissimo, l’irruzione del mondo adulto è vista come un’intrusione indebita. Anche se in gioco ci sono le indagini sulla morte di una ragazza. Perché Reena non è mai stata una di loro, mai stata parte del branco, e ciò che conta di più è allora garantire la conservazione del gruppo, a ogni costo, e respingere una parola altrettanto intrusiva, molesta, che i grandi continuano a ripetere loro ma che pare quasi straniera: conseguenze.
L’assassinio di Reena è qualcosa che tocca tutti, che incide in profondità il tessuto della comunità: questa quattordicenne schiva, che in pochi notavano al di fuori del nucleo famigliare e che era andata in tanti modi cercando l’approvazione delle compagne di scuola più popolari, o l’attenzione di un ragazzo che le piaceva, rimane «una ragazzina che forse avevano ferito o che magari avrebbero potuto salvare» (p. 228). E la domanda che imperversa, per cui nessuno si dà pace, è «Com’è potuto succedere? Com’è possibile che dei quattordicenni arrivino essere implicati nella morte di una loro coetanea?» (p. 284). Forse proprio per questo anche chi non si è sporcato le mani del sangue della vittima è comunque osservato e giudicato, etichettato da sguardi estranei, come quelli dei molti giornalisti accorsi sul luogo.
“Nel tragitto da casa a scuola, c’erano cinquecento giornalisti che cercavano di farci parlare. Non si rendevano conto di quanto fossimo giovani. Non pensavano allo stato d’animo che causavano. A scuola non riuscivamo a concentrarci. Solo gli insegnanti non ci giudicavano; erano gli unici adulti in grado di capire che non eravamo persone cattive.” (p. 268)
Tutti gli adulti, siano parte o meno della comunità, hanno ben
chiara una propria interpretazione del fenomeno, orientato per lo più a condannare o denigrare la nuova gioventù,
o le “cattive ragazze” che si sono lasciate coinvolgere e che spesso vengono
associate alle Furie, risvegliatesi in una notte speciale in cui strane luci
avevano solcato il cielo, attirando tutti gli sguardi e distogliendoli da cosa
stava succedendo sulla terra o giù, nel fiume.
È Rebecca Godfrey a proporre un diverso punto di vista, in cui si può leggere l’intento del romanzo, ovvero una lettura più profonda, meno semplificatoria e banalizzante, dell’evento:
Nessuno parlò con quelle ragazze […] e loro non parlarono con nessuno. Le loro storie restarono sconosciute. […] La realtà di tutte le loro vite, la realtà del perché le ragazze erano esplose […] sembrava destinata […] a rimanere nascosta e oscura. (p. 292)
Il tema dell’oscurità è ricorrente, non solo in riferimento allo spazio fisico sotto il ponte in cui si consuma il delitto, ma anche in relazione agli abissi in cui sprofondano i protagonisti, che in gran parte si trovano coinvolti in una vicenda che li trascende senza che ne siano (o appaiano) consapevoli. Lo stesso Warren Glowatski, condannato insieme a Kelly Ellard per l’omicidio di Reena, associa il proprio comportamento al motivo del buio, inteso quasi come forza soverchiante e sconosciuta, e non necessariamente in senso autoassolutorio:
L’aveva perduta, aveva perduto così tanto, e solo a causa delle tenebre di quell’unico momento, sotto il ponte. Avvenne tutto nell’oscurità, attraversò il ponte e scese in un luogo ancora più buio, lontano dalla luce e più vicino al punto in cui la luna richiamava l’acqua con una forza invisibile. Coglione, si disse per la milionesima volta. Cosa aveva fatto? E perché? Le ragazze che aveva trascinato nelle tenebre, quella che neanche conosceva e quella che amava. (p. 330)
Del resto, l’autrice compie un’operazione
di senso inverso, che è quella di portare alla luce, di fornire una lettura
il più possibile piana dell’evento, al di là dei moti emotivi che i fatti
esposti possono suscitare, anche nel lettore. Un esempio è la descrizione di
ciò che riguarda i processi a Kelly, la cui parabola è molto diversa da quelli
che coinvolgono Warren – anche in virtù di una differente condizione
socio-economica, che nel volume viene fatta emergere, pur senza commenti espliciti.
Il secondo processo, dopo la riapertura del primo, è «una specie di riedizione, una nuova produzione con gli stessi attori
dell’originale, solo visibilmente più cresciuti» (p. 389).
I giovani di View Royal hanno in larga parte concluso il loro
percorso di redenzione e, ad eccezione di Kelly, appaiono cresciuti, cambiati, finalmente davvero coscienti dell’orrore
avvenuto. Eppure la vicenda, giudiziaria e non solo, è ancora ben lontana dalla
sua conclusione. Rebecca Godfrey segue le tracce di tutti i personaggi
coinvolti, li accompagna nel transito
dall’adolescenza all’età adulta, e al contempo osserva però le dinamiche di
una comunità che non ha davvero imparato, che non è stata in grado di far
tesoro dell’accaduto e di offrire ai giovani locali nuovi luoghi e forme di
stabilità.
Nella postfazione, Mary Gaitskill fa notare come la grandezza dell’autrice, solo ventinovenne quando per la prima volta venne in contatto con il caso Virk, risieda proprio nella capacità di rivelare, attraverso la sola narrazione, liberata dal peso dei giudizi morali, «come la ferocia possa intrecciarsi alla normalità, persino all’innocenza» (p. 458). In questo senso la sua opera di indagine, il suo sprofondare all’interno della storia, non è così diverso dall’operazione che compiono i sommozzatori quando, all’inizio del libro, si immergono nella Gorge per cercare le tracce di una ragazza scomparsa e, una volta trovatala, in modi e tempi imprevisti, con delicatezza la riportano a riva.
Carolina
Pernigo
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