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"Le farfalle di Sarajevo", l'intenso esordio (tratto da storie vere) di Priscilla Morris: raccontati con dolcezza, gli orrori del primo anno di guerra in Bosnia

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Le farfalle di Sarajevo
di Priscilla Morris
Neri Pozza, ottobre 2023

pp. 240
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Ho sempre pensato che il romanzo d’esordio di uno scrittore o scrittrice valga come una sorta di manifesto, un’aperta e voluta rappresentazione di sé e della propria immagine letteraria; che il primo romanzo esprima un nodo ben stretto attorno a chi lo scrive, legato a qualcosa di intimamente interiore che si vuole, da ultimo, far sapere. Credo che in questo caso sia così, che Priscilla Morris, nel suo esordio Le farfalle di Sarajevo, parli e dica molto di sé attraverso le storie che altri le hanno raccontato, famigliari e conoscenti, ma anche sconosciuti, e che l’autrice non ha mai vissuto sulla propria pelle.

Ma di quest’ultimo piccolo dato ci accorgiamo soltanto alla fine, dopo esserci immersi nelle pagine del libro e aver creduto che questa storia sia appartenuta proprio a lei, ma anche un po’ a noi lettori, a tutti, sconvolgendo la tipica rassicurante convinzione che le guerre sono sempre lontane, esplodono da qualche altra parte. Oggi più che mai vediamo che non è così e che la guerra si insinua lasciando sempre una sensazione illusoria di conforto, il pensiero del “non è possibile”, “non sta accadendo”, subito seguito da un nuovo inganno consolante: “finirà presto, chi è che vuole una guerra…?”

Dopo il successo di Rosella Postorino con il suo Mi limitavo ad amare te (ne abbiamo parlato qui), viene pubblicata in Italia, stavolta da Neri Pozza per la collana Bloom, un’altra opera ambientata nella Bosnia del 1992, all’inizio di una guerra che per la protagonista dura “soltanto” nove mesi, ma che prosegue anche dopo la sua salvezza e che nella realtà è durata ben più di qualche mese, come invece ci si aspetta e si spera ogni volta che cominciano i bombardamenti. Invece la guerra non si ferma, va avanti, per anni e anni, tutti chiedendosi stupefatti, le vittime per prime ma anche chi da lontano, chi mai può desiderare che non venga posto un freno, subito. Chi desidera i morti?
Può sembrare una banalità, invece è proprio lì che Priscilla Morris ci porta nel suo romanzo. Leggiamo la stupefazione continua della protagonista, Zora, una pittrice paesaggista serba bosniaca di mezza età, che vive a Sarajevo. Le è stato riconosciuto uno studio all’ultimo piano della Vijećnica, l’edificio che ospita il municipio e la biblioteca della città, un posto d’onore per “la pittrice di ponti”.

Ma nella primavera del ’92, stagione in cui la narrazione comincia, la Bosnia-Erzegovina viene dichiarata un paese a sé e sono molte le famiglie che lasciano Sarajevo, la capitale, la grande città multietnica dove «tutti si vogliono bene, si era detta con l’ingenuità di un bambino» (p. 78), che «è sempre stata esaltata come un modello di tolleranza» (p. 51). Un nuovo paese nasce, ma porta con sé sentimenti misti di panico ed esaltazione, che inevitabilmente si confondono e si assaltano a vicenda. Con il marito e la madre lontani, partiti per l’Inghilterra in visita dalla figlia, Zora assimila le notizie del telegiornale frastornata, ma viva.
Era una bella conferma avere il riconoscimento del mondo, essere liberi da Milošević, così determinato a distorcere la Jugoslavia facendone qualcosa di brutto e pieno d’odio. E poi, nello spazio di un respiro, si è ritrovata in preda al terrore. La città veniva bombardata. […] chi sapeva quale Bosnia stava nascendo? (p. 27)
Zora non riesce più a capire cosa sia la normalità, per quale ragione la gente decida di andare via con il rischio che le case vuote vengano occupate dai profughi, «non ha idea di cosa sappiano che lei non sa» (p. 36). Lo sbigottimento della protagonista non si acquieta, non dà mai spazio a una lucida conclusione razionale, alla realizzazione che una guerra lunga e cruenta si sta facendo avanti. Eppure a un tratto, mentre cammina verso il Ponte delle Capre, il bellissimo ponte ottomano di pietra bianca che è il suo ultimo soggetto artistico, Zora si trova davanti una barricata: «Questa adesso è Republika Srpska. Solo serbi», le viene detto da un soldato cetnico. «Io sono serba» (p. 29), dice Zora, ma un fucile le viene comunque puntato addosso. 

Quando una bomba esplode, improvvisa, inattesa, nel palazzo in cui Zora abita, durante un pranzo sereno con i vicini di appartamento, anche la sua ingenuità subisce infine un tracollo, e da lì in avanti Priscilla Morris comincia a delinearci il quadro netto, vivido, martoriato dei mesi successivi: Estate, Autunno, Inverno e Anno nuovo sono le quattro parti in cui l’autrice suddivide il terrore e lo strazio vissuti dalla protagonista, la carenza progressiva dei bisogni primari, che di mese in mese si fa più intensa, più insopportabile, diventando assoluta mancanza, di cibo, di acqua, di igiene, di riscaldamento in una città dove le temperature d’inverno scendono a meno venti. E in mezzo a tutto questo l’incredulità ancora viva nella protagonista, l’inconciliabilità tra quello che la circonda e l’idea strutturale di aver sempre vissuto in una città eterogenea e bellissima, che non ha motivo né possibilità di essere divisa, incassettando dentro a confini le diverse nazionalità che la abitano.
Mezza Sarajevo è musulmana, un quarto serba, meno di una persona su dieci è croata. Un terzo dei matrimoni è misto e i figli si definiscono semplicemente “jugoslavi”. Sono tutti slavi, comunque. [corsivo mio] (p. 50).
Sono tutti slavi. Quanto è difficile, soprattutto per noi italiani, comprendere l’eterogeneità slava e soprattutto jugoslava, che nasce da un’origine comune, che al suo interno non è linguisticamente distante né tanto diversificata come si tenta di farla apparire. Quanto è difficile riconoscere l’esistenza di differenze e al contempo di similitudini, accettare che le diversità possono nascere e nascono da una stessa identità comune. Quanto è difficile liberarsi da una visione che esclude a priori le sfumature, e accogliere piuttosto una sorta di bipensiero orwelliano, che sostiene la verità allo stesso tempo di un concetto e del suo opposto, perché la diversità e la rassomiglianza, l’uguaglianza, sono sì concetti oppositori, ma esistono insieme come verità.

Noi, che, nati negli ultimi decenni, non sappiamo immaginarcela, la guerra, ci sorprendiamo dello stupore di Zora, della sua ingenuità. Noi che giudichiamo inevitabile l’esistenza di conflitti etnici e religiosi in certe aree del mondo, non comprendiamo abbastanza a fondo quanto l’eterogeneità possa avere implicazioni razziali e guerrafondaie, e quanto la Bosnia e le altre repubbliche jugoslave ne abbiano sofferto.

L’autrice di Le farfalle di Sarajevo ci aiuta a capire tutto questo, con una scrittura posata e placida, vellutata anche quando usata per descrivere gli orrori della guerra, e in una forma romanzata che trae ispirazione da narrazioni reali, famigliari, che Morris ha ben intessuto per dar vita alle vicende di Zora. La scrittrice ci suggerisce di approfondire, nelle ultime pagine, dirette al lettore, elencando documentari, romanzi e cronache, ma anche facendo una precisazione terminologica, utile a comprendere con maggiore chiarezza quanto sottilmente l’odio può insinuarsi anche negli interstizi, nelle diversificazioni più minute:
ho preferito il termine “nazionalità”: per evitare ogni indicazione che i tre gruppi siano antropologicamente diversi. […] appartengono al medesimo ceppo slavo e non hanno tratti somatici che li differenzino. […] L’identità etnica di una persona bosniaca aveva più a che fare con un senso di tradizioni e festività condivise che con la pratica religiosa. (p. 231)
Federica Cracchiolo