Tre vite una settimana
di Michel Bussi
edizioni e/o, 2023
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
pp. 421
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)
Tre vite una settimana, romanzo da poco uscito per edizioni e/o, segna il ritorno del miglior Bussi, quello che gioca sul tema dell'identità, che sa costruire vite in parallelo, utilizzando piani temporali diversi, giustapposti e contrapposti in maniera da disorientare intenzionalmente il lettore, portandolo a perdere la bussola e facendo in modo che non si accorga dei piccoli segnali lasciati qua e là.
Il Bussi che ricrea molte vite in una, lo scrittore che fa agire i suoi personaggi come in un gioco di riflessi. Avete presente al luna park - forse un'attrazione di qualche anno fa - la casa degli specchi? Quella in cui si vagava in corridoi trasparenti, ingannati da pareti a specchio che invogliavano a voltarsi per poi prendere tremende capocciate? Ecco, leggere i romanzi più riusciti di Bussi assomiglia un po' a questo: si vaga per la trama, si girano le pagine sicuri di aver trovato la soluzione al giallo e poi si prende la classica "tranvata" perché Bussi sa sorprendere e, all'improvviso, crea un'altra pista sulla quale gettarsi a capofitto.
Ma veniamo alla storia. A Bogny-sur-Meuse, nelle Ardenne (e Bussi prosegue il proprio giro patriottico-letterario che vede ambientare ognuno dei suoi gialli in una particolare zona della Francia), nei pressi del Belvedere dei Quatre Fils Aymon, in una giornata di pioggia, viene rinvenuto il cadavere di un uomo. Fin qua la capitana della Gendarmerie, Katel Marelle, dura e coriacea come si addice a una poliziotta, si trova davanti a un solo bivio: suicidio o omicidio? Ancora non sa che il gioco si farà più complicato. I suoi gendarmi, calatisi fino al corpo dell'uomo, le rivelano che il cadavere ha con sé un documento, una patente intestata a Renaud Duval. Cadavere identificato? Tutti a casa? Mica tanto, gli agenti nella macchina poco distante rinvengono altre due patenti, una intestata ad Hans Bernard e l'altra a Pierre Rousseau. La foto sui tre documenti è la stessa, la data di nascita pure. Soltanto il luogo cambia: Renaud è nato il 29 gennaio 1977 a Charleville-Mézières, lì nelle Ardenne; Pierre è nato a Parigi, lo stesso giorno; Hans a Mende, in Lozère (a centinaia di chilometri di distanza). Un rapido controllo certifica che non si tratta di documenti falsi, ma di patenti rilasciate a uomini ben conosciuti, fin da bambini, nei rispettivi luoghi di residenza. E a piangerli ci sono tre donne, Agnès, detta Nanesse, moglie dell'ingegner Renaud, quindi vedova ufficiale; Vicky, compagna del camionista Hans; Éléa, giovanissima amante del ballerino e poeta Pierre. Esse cercano il loro uomo, sparito proprio in quei giorni. Com'è possibile tutto ciò? Come trovare il bandolo della matassa in questo caso che supera le più nere aspettative della capitana Marelle?
Parte da questi indizi l'indagine che subito si focalizza su quello che sarà un elemento centrale della trama: le marionette, l'arte di costruirle e farle andare in scena. Infatti, nella casa di Renaud e Nanesse ne campeggiano di strane e inquietanti, simili a quella che Hans ha regalato alla bimba di Vicky, alla quale fa da papà, e uguali a quelle che sono appese tra i volumi nella libreria Baou a Parigi, dove Éléa si è innamorata dei versi di Pierre.
La storia di questi tre uomini e del loro legame con l'arte marionettistica ha radici lontane, parte dalla lontana Cecoslovacchia, quando ancora il Paese era unico e aveva un solo nome, quando la Cortina di Ferro tra Est e Ovest era ancora saldamente in piedi e parte dall'invasione russa di Praga del 1968 che lascia dietro di sé, sotto le macerie, una bambina, raccolta pietosamente (ma sarà per poco) da un giovane. Il ragazzo, straordinario marionettista ambulante, la condurrà nel proprio carrozzone con il quale gira le città dell'Est portando nelle piazze, insieme a moglie e figli, gli spettacoli di marionette. Come la storia di questa bambina, che diventerà donna (troppo presto) si allaccerà al cadavere trovato al Belvedere dei Quatre Fils Aymon sarà un piacere del lettore scoprirlo. E sarà proprio questa donna, artista, straniera, misteriosa la chiave di volta.
Anche Bussi, dal canto suo, in questo romanzo si fa burattinaio: dietro le quinte muove corde invisibili, alterna i capitoli tra Nanesse, Vicky ed Éléa, alzando alternativamente i fili dell'una e dell'altra, facendole apparire sulla scena da sole mentre raccontano la loro storia d'amore, accendendo i riflettori prima su una e poi sull'altra, mentre il lettore comincia a entrare nelle loro vite che sembrano escludere le altre due. Sembrano... Perché il capitolo successivo accende un altro faro e un'altra marionetta, un altro personaggio prende movimento e racconta. Finché queste tre donne si ritroveranno, unite nella stessa ricerca, ma a questo punto della storia il mistero è ancora ben lungi dal dipanarsi.
Leggere un romanzo di Bussi quando l'autore è in stato di grazia come in questo caso è un'esperienza assolutamente inebriante, si viene coinvolti in continui giri di giostra, in capovolgimenti imprevedibili ma perfettamente plausibili. Non sempre le storie di Bussi, che in Francia è lo scrittore di gialli più venduto, raggiungono questo livello. Sicuramente Ninfee nere, il libro che ha decretato il successo internazionale dello scrittore (leggi qui la nostra recensione), in parte anche Tempo assassino, molto meno Mai dimenticare, solo per citarne alcuni. Il meglio di sé l'autore francese lo dà quando riesce a portare avanti storie parallele, legate da ganci invisibili sempre più stretti, come rette che a un certo punto si avvicinano sempre più fino a sovrapporsi.
Lo stile del romanzo è consono alla trama, incalzante, ritmato e punteggiato da dialoghi serrati che danno vita alle scene. La costruzione dei personaggi si dipana pian piano durante il racconto, più si procede nella lettura e più si scava a fondo delle figure principali che lasciano trapelare sempre di più fino all'agnizione finale (ecco, se proprio devo trovare una piccolissima sbavatura, potrei dire che in questo esatto momento non è fino in fondo credibile il silenzio della donna coinvolta, ma qui mi fermo, evidentemente il silenzio è ad "usum lectorum", se così posso dire).
E, tanto per tendere altri fili, l'intero romanzo strizza l'occhio ad Arthur Rimbaud, nato proprio a Charleville-Mézières, come Renaud Duval. Poeta amato e citato da Pierre Rousseau (un'altra persona? la stessa?), citazioni dalle sue poesie aprono ogni capitolo. La prima recita, non a caso "Io è un altro", dalla lettera di Rimbaud a Paul Demeny.
Un romanzo dove la verità gioca a nascondino, fa capolino e torna nell'ombra. E come in un teatrino di marionette, anche il lettore sente di essere tirato per un filo, convinto di affacciarsi alla soluzione, per poi ricadere floscio quasi che il burattinaio lasciasse cadere improvvisamente i fili. Fino alla scoperta alla quale si arriva, giustamente, nelle ultime pagine. Quando il sipario si chiude.
Siamo solo essere di panno e di carta. Un giorno ci animiamo, crediamo di vivere, crediamo di essere liberi, guardiamo da un'altra parte per non vedere i fili di nylon e le scene di cartone, abbiamo paura che lo spettacolo si fermi, che il sipario cada come una mannaia e che torniamo a essere quello che siamo sempre stati, un giocattolo sballottato da forze invisibili per il tempo di ballare un po' nella luce prima di essere nuovamente riposto in un cassetto, al buio (p. 323)
"Musica gente, cantate che poi, uno alla volta si scende anche noi, sotto a chi tocca in doppio petto blu, una mattina sei sceso anche tu..." (Il carrozzone, Renato Zero, 1979).
Sabrina Miglio
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