Capitalismo Woke.
Come la moralità aziendale minaccia la democrazia
di Carl Rhodes
Fazi, settembre 2023
Traduzione di Michele Zurlo
Prefazione di Carlo Galli
pp. 314
€ 20 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
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«Dall'Australia con rigore», scrive Carlo Galli alla fine della sua prefazione di Capitalismo Woke di Carl Rhodes. Presenta così un libro che ha un rigore non solo formale e argomentativo, ma anche di visione del mondo.
Professore di Teorie dell'organizzazione e preside della UTS Business School presso la University of Technology di Sidney, Rhodes - già autore di testi e contributi critici su economia, politica, etica e società - propone in questo saggio il racconto di un fenomeno nato alla fine del Novecento e rafforzatosi negli anni Duemila: il capitalismo "woke" (letteralmente "sveglio", "consapevole"), cioè l'approccio con cui le grandi aziende decidono di abbracciare cause sociali che per orientamento definiremmo progressiste (diritti civili, sostenibilità ambientale, antirazzismo, giustizia sociale) dichiarando di voler generare valore e cambiamento nel mondo.
Il termine "woke" non nasce con questa tendenza ma vive un arco vitale storico preciso, nonché interessante: alla metà del XX secolo viene rivendicato dai movimenti per i diritti civili, poi se ne appropriano gli attivisti per i diritti degli afroamericani - con una ripresa significativa all'interno della causa #BlackLivesMatter degli ultimi anni - per poi conoscere una nuova fase di rivalutazione, sicuramente più problematica. Da simbolo di lotta, oggi l'aggettivo "woke" indica non solo ciò che appare progressista, ma quanto più ciò che viene ritenuto ipocrita, moralista, appiattito nella dimensione del politicamente corretto. Non a caso si parla di woke washing cioè della «pratica di marketing e pubbliche relazioni con cui le grandi imprese sperano che, associandosi a cause politiche più che giuste, otterranno il favore dei clienti e, in ultima analisi, un guadagno commerciale» (p. 13).
A partire da questa prima introduzione al concetto e alla sua genesi storica, che affonda le radici nella teoria della Responsabilità sociale d'impresa degli anni Cinquanta, passa attraverso il neoliberismo degli anni Ottanta e arriva fino ai giorni nostri, Rhodes sviluppa nel volume una serie di argomentazioni che arrivano a una tesi centrale di fondo: il capitalismo woke mina la sopravvivenza della democrazia.
Lo farebbe in quanto forma di agire superficiale ed egoista che si autodichiara progressista quando invece è guidata dalla sola logica del profitto. Ne sarebbero manifestazione le campagne di comunicazione tanto discusse di aziende come Amazon, Nike, Pepsi, Gillette, Apple, IBM; ne sarebbe prova l'attivismo dei loro CEO, sempre più inclini a farsi portavoce di un nuovo dialogo con tutti gli stakeholder che mette al centro delle cause etiche, nonché politiche.
Nel discutere questi aspetti l'autore argomenta con un piglio decisamente appassionato - il saggio ha un fluire scorrevole e piacevole - ribadendo alla fine di ogni capitolo i rischi dell'attivismo delle multinazionali: un mondo dominato da una retorica che sbandiera valori e battaglie in cui le imprese non credono fino in fondo, o meglio in cui credono solo fino al superamento dei business test con i consumatori.
Non si può dire che non ci sia allarmismo nel libro di Rhodes: ci mette in guardia dai lupi in abiti woke che affollerebbero i consigli d'amministrazione, i board delle aziende e i loro reparti di marketing e pubblicità (nonché le aule della politica) aggravando i problemi del presente e del futuro invece che risolverli.
Nell'allarme che lancia, però, c'è un rigore che somiglia più all'intransigenza.
Raccontare i lati problematici del mondo capitalista, su tutti la disuguaglianza sociale e la necessità di salvaguardia dell'ambiente, richiederebbe anche uno sguardo sfaccettato che in molti punti dell'argomentazione sembra parziale.
Per esempio: invece di porci in una posizione di pura accusa verso le aziende che abbracciano cause sociali, potremmo interrogarci estesamente sull'efficacia di queste azioni? Problematizzarla?
Invece di bollare questi approcci come frutto di mera ipocrisia potremmo domandarci se nelle persone questo possa generare delle risposte che non hanno a che fare esclusivamente con la scelta di acquisto ma con l'insorgere di consapevolezze, siano esse favorevoli o contrarie?
Siamo sicuri che distinguere in un modo così netto gli ambiti di azione e gli obiettivi di un'impresa (profitto) con quelli delle istituzioni (politica e società) non generi un mondo bianco e nero che non ammette più grigi?
Siamo convinti che, da teoria del sistema capitalistico, la responsabilità di un'azienda sia solo connessa con la sua crescita economica? Al di fuori del rispetto delle leggi e dei regimi di tassazione, del rispetto di una politica di salario corretta non ci sono altre dimensioni della "responsabilità" che possiamo considerare e discutere? Capitalismo woke sembra arrivare a una dimensionalità unica che per me elude comunque tante domande. Stiamo attenti ai lupi in abiti woke, ma non dimentichiamoci il senso critico.
Claudia Consoli