Cassa 19
di Claire-Louise Bennett
Bompiani, settembre 2023
Traduzione di Tommaso Pincio
pp. 160
€ 20,00 (cartaceo)
Scrivo questa recensione con difficoltà, con la difficoltà di chi non è sicuro di aver capito ciò che ha letto, di farsene un’idea sintetica in testa, che poi non è necessariamente una cosa negativa. La confusione può portare a ogni sorta di riflessione e profondità. Molti critici e letterati sostengono che un buon libro non dovrebbe affatto essere chiaro né esposto alla luce del sole. Che sforzo è richiesto, allora, al lettore? Una lettura passiva è una lettura senza sentimenti. Essere imboccati ad ogni pagina dall’autore equivale a rimanere dei lettori-bambini, non si cresce mica.
Faccio una premessa del genere per trovare un’allacciatura, un cominciamento per parlare di Cassa 19, secondo romanzo di Claire-Louise Bennett dopo il successo di Stagno, sempre edito da Bompiani e sempre tradotto da Tommaso Pincio.
Non è facile, come dicevo, scriverne; ma iniziare parlando di come si legge e di come un libro si fa leggere sembra la strada adatta da percorrere, visto che il romanzo di Bennett parla anche di questo, forse proprio di questo, forse è a tutti gli effetti il suo punto centrale e così potrei scoprire alla fine di questa recensione di averci magari capito qualcosa.
Una ragazza lavora alla cassa 19 di un supermercato, a Londra, ma viene da un paesino della provincia, e si barcamena tra lo studio e il lavoro, e le relazioni più o meno disequilibrate di questi giovanili anni della sua vita. Fa la spesa come i giovani, come gli studenti, una lista di cose che non sembrano mai né necessarie né che stanno bene insieme. Mi piace sempre leggere cosa mangiano e bevono i personaggi di un libro, mi viene voglia di imitarli e la protagonista di Cassa 19 non è da meno.
Negli intermezzi tra studio e lavoro (anche se sono lo studio e il lavoro a essere “il contorno” delle sue giornate) è una ragazza che legge, e legge tanto. Ci fa una lista delle letture che ha fatto nel corso degli anni, e lì possiamo sottolineare e prendere appunti a bizzeffe, perché sono tutti titoli che in qualche modo risuonano qualcosa dentro di noi anche se non si conosce nulla né di quei libri né degli autori che li hanno scritti. C’è una strana guida letteraria inconscia in ognuno di noi, in cui si sono raggrumate informazioni letterarie inconsapevoli, menzioni di scrittori e scrittrici, titoli solo passati fugacemente, ma in qualche modo sappiamo che hanno un valore, la nostra memoria degli anni passati ce lo ha trasmesso e noi abbiamo la certezza che vale la pena leggerli, che bisogna leggerli e che sono dei capolavori. Come dire, ci chiamano, ci attraggono fascinosamente.
In Cassa 19 il rapporto coi libri è più che frutto di un fascino, è vivere. Una morbosità nutritiva e potente che stimola l’immaginazione della protagonista. Lei si nutre di libri e i libri nutrono la sua vita, le storie diventano la sua vita, e vorrebbe ripercorrere quelle storie dentro di lei, assorbirle e farle coincidere con la sua stessa realtà. Fare quello che fanno i personaggi di cui si legge, ma non solo, desiderare che gli eventi ci capitino come sono accaduti dentro le pagine; è una verità assoluta, questa, dei lettori. Credo che ogni lettore possa confessare di averlo fatto, almeno una volta. Non è immedesimarsi nel personaggio, non è calarsi dentro le righe del testo, ma al contrario portare la letterarietà nella propria vita, far uscire la storia nel mondo reale. La protagonista lo fa con Camera con vista, andando fino in Italia. Io sono molto sicura del libro che sceglierei, ma non lo confesso.
Claire-Louise Bennett riesce a diluire il contenuto nella forma stilistica, restituendo con la sua scrittura quella fusione a cui la protagonista anela con ciò che è letterario.
Sebbene io abbia letto la prima metà del libro con titubante noia, con una confusione che mi faceva interagire con il libro e chiedergli infastidita “ma dove vuoi arrivare? Ma a cosa mi stai portando?”, da un certo punto in avanti tutto ha iniziato a scorrere con un ritmo fluido. Non a caso i brani che ho voluto sottolineare si trovano tutti a metà del libro, in consecuzione. Alcuni, spezzettati, li voglio qui riportare:
[…] me ne stavo seduta impotente nel letto con le mani ai lati del corpo come fogli di carta appallottolati […] e lei era lì, Anna Kavan, o una persona che lei aveva inventato […] con le sue oscure e strane parole che brillavano nel buio […] parole tanto strane, eppure per nulla irreali né estranee al mio orecchio […] Alcune parole scritte sono vive, attive, palpitano – esistono in tutto e per tutto nel presente, lo stesso presente in cui esistiamo noi. In effetti sembra che vengano scritte mentre le si legge, sembra addirittura che sia il posarsi dei nostri occhi sulla pagina a farle apparire, e comunque certe frasi non sembrano per nulla separate da noi o dal momento in cui le leggiamo. Si ha la sensazione che non esisterebbero se noi non le vedessimo. Che non esisterebbero senza di noi. E non è forse vero anche l’opposto – che le pagine che leggiamo ci fanno sentire vivi? [corsivo mio] Voltare le pagine, voltare le pagine. Sì, è così che ho continuato a vivere. Vivere e morire e vivere e morire, pagina sinistra, pagina destra e così via. (pp. 124-125)
Nel libro di Claire-Louise Bennett troviamo una trama ingarbugliata e girovaga, per certi versi ostile a farsi dare un allineamento cronologico, perché qui la vita della protagonista non conta, sono i libri, è il suo leggere e poi il suo scrivere che, come afferma, la fanno vivere, che costituiscono la sua vita e si insinuano nella storia del romanzo. Non ci sono livelli, non è metaletteratura, è una liquefazione di immaginazione e realtà che si miscelano tra le pagine.
Un romanzo diviso in due dai miei tratti a penna, da un punto in cui qualcosa ha invertito la tendenza, non una frase, non una pagina, non saprei dire cosa, ma è certo che ho concluso il libro con una perplessità lieta, con quel dubbio che desidera scavare ancora più a fondo nella scrittura dell’autrice e non sottrarvisi.
Federica Cracchiolo