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L'artéteca raggiunge a mezzogiorno ritmi musicali di jazz, di ragtime, parenti di tarantelle. In altre città ci si muove come dentro un acquario, a Napoli per strada si sta in un padellone di frittura mista (p. 33)
Sapevo dell'uscita di questo libro da quando, in occasione della presentazione a Napoli del suo ultimo romanzo, Le regole dello Shangai (qui la recensione), Erri De Luca fece un piccolo spoiler. Disse che avrebbe pubblicato una sorta di vocabolario che riuniva tutte le sue parole dialettali napoletane preferite, quelle che gli ricordavano di più sua madre e sua nonna. Ed eccolo qui, A schiovere, una raccolta di 101 voci illustrate dal mitico Andrea Serio e raccontate con ironia e franchezza, insomma con il consueto stile frizzante ma estremamente colto di De Luca.
Le voci sono presentate in ordine alfabetico, e ne troviamo di ogni tipo: dalle più note - come sicco, ciuccio, crianza - alle più insolite (che personalmente non ho mai letto né sentito a voce) - arrassusìa, secutasòrece, paparacianno - quasi sempre associate a brevi spiegazione etimologiche e a ricordi di come la madre e la nonna le usavano nel parlato comune.
Stropicciato, riposto in malo modo nell'armadio: è stato il rimprovero fisso di mia madre. Ha abitato con me dopo la morte di mio padre. Teneva in ordine. Il suo l'apprezzavo, dopo no. I panni devono essere puliti, ma non serve che siano stirati, piegati e ben sistemati. Lavo i piatti, non li asciugo, li lascio sulla piattaia insieme alle stoviglie. Mi passo di rado una spazzola tra i capelli rimasti. Mi chiedo cosa aspettano a liberarsi dal cuoio capelluto. Sono ammappuciato fuori e dentro (p. 19)
C'è molto di Napoli in questo testo: la Napoli al tempo della guerra e quella degli anni di piombo, la città rappresentata come caos, aggregazione, contenitore, se vogliamo; luogo di un tempo che non esiste più o di cui si stanno perdendo le tracce. Ad esempio, se leggiamo il significato della parola sciorta (la fortuna) De Luca ci parla del poeta Raffaele Viviani, grande interprete della poesia popolare; oppure, quando ci parla della parola purpo (polpo), l'autore ricorda suo padre che pescava; tanti sono inoltre i rimandi alla canzone classica napoletana, ai metodi casalinghi caduti in disuso, a ciò che accadeva quando si doveva per forza parlare vis à vis. Nel libro si ride anche moltissimo: un gioco che ho fatto con mio suocero, che si considera massimo esperto di dialetto partenopeo, lo ha scoperto parecchio "ignorante" su alcuni vocaboli, con una conseguente disputa colorita.
Il napoletano manca della parola noia. Non ha tempo per dedicarsi a quest'inerzia fisica e spirituale. La leggenda della sua indolenza e smentita proprio dall'assenza di questa paro-la, dovuta alla condizione opposta di attività frenetica, insonne, governata dal rigoroso ordine che al forestiero appare invece caos e gli dà capogiro. Un luogo che ignora la noia nel suo vocabolario non può essere abitato da pigri. Il napoletano è sensibile invece alle scocciature, seccature provenienti dall'ambiente esterno. Contro tali evenienze ha per scongiuro, blando o perentorio: "Nun me scuccia" (p. 157)
Una definizione dopo l'altra, De Luca ci racconta cos'è il dialetto napoletano, come se fosse un vero e proprio personaggio narrativo, con i suoi pregi e i suoi difetti, persino con i suoi capricci. Fa tenerezza anche entrare nella vita intima dell'autore, in un contesto familiare in cui lo ritroviamo spesso bambino ad ascoltare e assorbire come una spugna parole, aforismi, proverbi e canzoncine. E non solo: si entra anche, a passi lievi, nella storia di Napoli, scevra da accademismi e didattiche stantie, ma presentata come uno spartito musicale vivo e vivido.
Erri De Luca, non c'è nemmeno bisogno di dirlo, si conferma un narratore magico, un incantatore che usa i vocaboli come serpenti a sonagli per ipnotizzarci, per farci piovere addosso un po' di saggezza partenopea "a schiovere" (fuori tema, a vanvera, un po' come viene). Per chi ama Napoli, la sua lingua e questo autore è un testo da non perdere.
Deborah D'Addetta
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