Ritorno a Buitenzorg, sulle tracce di una donna. Conversazione con Jan Brokken su "La suite di Giava"

 


L'autore e Carolina Pernigo
durante l'intervista a Palazzo Maffei

È nella cornice unica e suggestiva di Palazzo Maffei, dove è in procinto di presentare un racconto dedicato alla “Red and Blue Chair” di Gerrit Rietveld esposta anche all’interno del museo, che ho l’occasione rara di incontrare Jan Brokken. L’autore si trova in Italia per presentare “La suite di Giava”, l’ultima delle sue opere tradotta da Iperborea, in cui la dimensione biografica si associa alla sua consueta passione cosmopolita, alla
curiositas che è la cifra costitutiva del suo narrare, come del suo viaggiare sulle tracce di storie sempre nuove e diverse. Ciò che colpisce subito di Brokken è la forte volontà di comunicare il legame, pervasivo nei suoi scritti, tra la storia individuale e quella collettiva, tra vicende singolari e temi universali. 
In questo caso, come avrò modo di approfondire anche il giorno dopo alla presentazione ufficiale del volume (di cui ho scritto qui), a essere intrecciate sono le storie di una giovane donna, Olga, la madre dell’autore, e quelle di molti artisti, musicisti e intellettuali che, come lei, sono rimasti affascinati dall’Indonesia e dalle sue contraddizioni. La suite di Giava è una partitura polifonica, una tela colorata dalle molte sfumature di cui Jan Brokken prova a dipanare i fili per noi.

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Tu scrivi che “per i romantici il viaggio è una forma di catarsi spirituale”, e si può dire che quello del viaggio sia filo conduttore di molte delle tue opere. In quest’ultimo romanzo è ciò che cambia l’esistenza sia dei tuoi genitori che del pianista Godovskij. Che ruolo, o valore, ha invece per te, in quanto uomo e in quanto scrittore?

Ho scritto molto su personaggi storici, artisti, architetti, musicisti, ed è stato un po' strano affrontare la storia di mia madre dopo aver narrato di personaggi come Anna Achmatova o Eva Calvino, la madre di Italo. Un giorno, come ho scritto nel primo capitolo del libro, ho sentito alla radio questo brano meraviglioso di Godovskij, “I giardini di Buitenzorg”. Buitenzorg era il nome, in epoca coloniale, di una città molto verde, sud di Batavia, la capitale. Buitenzorg in francese si può tradurre "Sans Souci”, “senza pensieri”. Era una località dal clima mite, dove aveva sede il palazzo del governatore. Io non avevo mai sentito niente di Godovskij, anche se veniva da Vilnius, una realtà che avevo esplorato all’interno di Anime baltiche. “I giardini di Buitenzorg”, alla radio, sono stati la mia madeleine: improvvisamente mi sono tornate in mente tutte le storie che mia madre mi aveva raccontato sull’Indonesia e io ho ricordato che avevo anche molte sue lettere.

Ho ricevuto queste lettere nel 1992, le ho lette, ma in quel momento non ero in grado di farci nulla. Le ho trovate molto interessanti, molto toccanti, ma al tempo ho deciso di tenerle con me e mi sono detto che quando sarei stato vecchio, il mio ultimo libro sarebbe stato su mia madre e sulle radici da cui sono venuto. 

Ma questo non sarà l’ultimo libro…

No… Ero un po’ spaventato quando è uscito, perché avevo detto a tutti i giornalisti che sarebbe stata l’ultima cosa che avrei fatto prima di morire, così ho iniziato a scrivere molto velocemente un altro libro, e poi altri ancora…  (ride) Comunque, quando ho sentito la melodia di Godovskij, improvvisamente ho individuato un modo per scrivere quel volume: potevo legare mia madre, la musica e la figura di Godovskij. Nel 1922 lui arrivò in Indonesia. Era un compositore e un meraviglioso pianista, al tempo il migliore. Gli piaceva viaggiare, anche se all’epoca non era così facile, e portava con sé i suoi pianoforti da concerto, e anche il suo accordatore. Andò in Giappone, in Cina, in Indonesia, ma anche in America Latina, in Australia… girò tanto per il mondo. In questo mi assomiglia molto. Dovunque lui fosse, provava a creare composizioni ispirate alla musica locale. A Giava sentì la musica del gamelan, una forma artistica molto antica, in cui la melodia era accompagnata dalla danza. Nelle cerimonie si utilizzavano fino a venti o trenta percussioni. Godovskij era così emozionato dall’idea di scrivere questa suite su Giava… la compose tra New York e Chicago.  

La curiosità, intesa come apertura verso il mondo, è uno degli elementi che maggiormente accomuna Olga e Leopol’d Godovskij. La ricerca ti ha portato a scoprire congiunzioni, e caratteristiche inedite, nell’uno e nell’altro. Come è cambiata la tua percezione di tua madre, dopo aver letto le sue lettere e averne conosciuto il periodo giavanese?


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Qualche volta i lettori mi chiedono perché non ho scritto solo di mia madre, perché ho voluto creare questa connessione con Godovskij.  L’ho fatto perché la storia individuale rischia di restare solo una storia individuale. Io ho provato a renderla più grande. Per questo ho legato mia madre e Godovskij. Godovskij non aveva ricevuto una grande educazione, ha potuto seguire solo pochi mesi di lezioni ed è diventato comunque il musicista più famoso della sua generazione. Anche mia madre non aveva avuto una grande educazione: mio nonno aveva quattro figlie e non aveva molto denaro; lei a quattordici anni ha dovuto lasciare la scuola per diventare una donna di casa. Ha dovuto imparare a cucinare, pulire, stirare, cucire… Ha iniziato a studiare il pianoforte da sola e mio nonno le ha permesso di continuare. Anche questa è una possibile connessione con Godovskij, così come il fatto che, quando è andata in Indonesia, anche lei è stata affascinata, come lo era stato lui, dalla cultura, dalle lingue, dalle tradizioni, da tutto ciò che era l’Oriente. Era un mondo nuovo, per lei. 
In questo modo ho voluto rendere più grande la sua storia, descrivere la fascinazione di un’altra cultura. 

Lo scambio tra Oriente e Occidente che viene vissuto in prima persona da Han e Olga si ritrova anche nella figura di Godovskij, nella musica che prova a fare e che trova la sua massima realizzazione nella suite di Java. Quali sono i frutti più preziosi di questo scambio, sul piano privato, per i tuoi genitori, e su quello musicale, nell’arte di Godovskij?

I miei genitori venivano da un paese piccolo e hanno scoperto questo grande mondo. Mio padre era un intellettuale e aveva studiato teologia, specializzandosi sull’Islam. Ma osservare l’Islam in Indonesia è stata una grande esperienza: ha scoperto che c’erano molte religioni, molti pratiche di culto, molti modi di vivere la vita, e che uno non era migliore dell’altro. Uno dei motivi per cui mio padre era stato mandato là era per cristianizzare le popolazioni locali, ma molto presto ha iniziato a chiedersi cosa potesse mai portare a queste persone in termini di fede, visto che loro avevano già dei sistemi di credenze ampi, complessi. Forse non credevano nelle stesse cose in cui credeva lui, ma erano forse più credenti di quanto non lo fossero gli europei…  Lo scopo di viaggiare, di vivere in un altro paese, è proprio questo, aprire la mente. Noi siamo di vedute molto ristrette, pensiamo che il nostro modo di vivere sia l’unico possibile. 

Uno dei temi che emerge dalla narrazione è lo scarto che sussiste tra una logica colonialista, che per molto tempo ha trattato in ottica “predatoria” le isole dell’Indonesia, e figure di intellettuali, musicisti, artisti e mistici che invece vi sono approvati con uno spirito diverso, di apertura, e ne hanno preso tanto quanto hanno dato…

Il colonialismo è stato un sistema economico per guadagnare in maniera orribile, sfruttando le persone e il paese… per esempio, in Indonesia c’era un sacco di petrolio, la compagnia Shell aveva base lì ed è diventata una multinazionale... Grazie alle lettere di Olga, però, ho capito che i miei genitori, quando sono partiti, avevano buone intenzioni. Pensavano di avere una missione civilizzatrice, ma dopo alcuni anni hanno capito che non c’era nulla da civilizzare, perché quella indonesiana era una civiltà antica, sviluppata. 

L’esistenza di Han e Olga e dei loro due bambini viene travolta dallo scoppio della seconda guerra mondiale, che è anche il periodo in cui le tracce si fanno più labili, dato il venir meno delle lettere. L’esperienza dei campi di prigionia giapponesi incide su di loro, e contribuisce a ridefinire la loro esperienza in Oriente. Che cosa, dell’entusiasmo iniziale, si è salvato da quegli anni, e cosa invece è andato perduto?

Tutto è stato perso. I miei genitori sono stati sette anni in paradiso, il loro è stato un romanzo d’amore. Grazie alle lettere di Olga, ho scoperto che si amavano molto intensamente, erano anime complementari. È stato anche un romanzo di formazione, di scoperta della vita. Tutte le lettere di Olga erano rivolte alla sorella più giovane, Nora, a cui era molto legata. Nora era fidanzata con il migliore amico di mio padre, quindi le due coppie erano molto vicine l’una all’altra. Le due sorelle erano molto aperte nei loro scambi. In una lettera Nora ha chiesto a mia madre: “Com’è essere sposata?”, perché lei non lo era ancora, e “Com’è fare l’amore ai tropici?”, e lei le ha risposto: “Molto caldo”, e ha poi spiegato che molto spesso lei e Han andavano insieme sotto la doccia…

È poi arrivato il tempo in cui loro volevano dei figli e ci sono state delle difficoltà. Olga ha subito un’operazione, e chiaramente a Celebes, nella città di Makassar, dove erano in quel momento, la situazione medica era molto precaria. In seguito lei ha perso una figlia a soli tre giorni dal parto. L’esperienza è stata terribile, l’ha condotta alla depressione, ma nelle lettere si può vedere come grazie all’amore del marito sia riuscita a riprendersi. Infatti un anno dopo, in una lettera, lei dichiara la volontà di riprovarci. Quella che ho scoperto, alla fine, è stata la storia di una ragazza che è diventata una donna, e di una donna che è diventata mia madre.

Tutto è cambiato quando è scoppiata la guerra. Lei aveva già due figli ed è stata per tre anni e mezzo in un campo di prigionia giapponese. Il campo è stato bombardato. Il marito era lontano, in un campo diverso, a duecento chilometri di distanza, e non c’erano comunicazioni. Una sola volta mio padre ha provato a inviare una lettera, ma chi doveva fare da tramite è stato arrestato, e mio padre maltrattato in una maniera orribile.

Il più grande disinganno è però avvenuto nel momento dell’arresto: quando mia madre è stata presa, come scrivo nel libro, lei e i miei due fratelli sono stati stipati insieme ad altre venti o trenta donne e bambini in un camion, e molte donne locali, mentre passavano, lanciavano pietre su di loro. Lei conosceva molto bene alcune di quelle donne, perché aveva insegnato loro a cucire, durante gli anni precedenti; era stata invitata nelle loro case, aveva chiacchierato con loro nella loro lingua, il makassar. In quel momento mia madre si è detta: “Queste pietre non sono per me”, ma nel campo continuava a ripensarci, e alla fine della guerra si è detta: “Quelle pietre erano anche per me”. Questa è stata la fine di un’illusione. 

Questa è forse la più personale tra le tue opere. In che misura scavare nel passato dei tuoi genitori ha implicato anche un lavoro di scavo dentro di te?

In realtà ho scritto più di me in un’altra opera, una sorta di autobiografia [ancora inedita in Italia]. In questo libro io ho scoperto maggiormente un’altra persona. Questo è un libro su mia madre prima che diventasse mia madre e questa donna, questa Olga… io non la conoscevo, e questa scoperta è stata la cosa più importante per me, a livello personale. Quando il libro è stato pubblicato in Olanda, ho ricevuto una parte di un documentario registrato nel 1938 a Sulawesi (Celebes).

[ci mostra un video in cui si vedono Olga e Han, giovani e spensierati, che ridono in un giardino, tenendo un mazzo di fiori]

Quando l’ho visto, improvvisamente, ho capito la disillusione che hanno subito durante e dopo la guerra. Questo è un piccolo filmato di felicità e mostra come erano insieme. Puoi vedere l’amore che provavano l’uno per l’altro, come si rivolgono agli altri, la loro apertura mentale. Quello che ho imparato da questo libro, e dalle lettere di mia madre, è chi erano le persone che mi hanno generato. Grazie a questo, sono stato in contatto con loro. E questo è stato il traguardo più importante per me, la conquista più grande.

 

a cura di Carolina Pernigo

Un ringraziamento a Valentina Zanoni per la mediazione linguistica durante l'intervista