Uno spaccato storico-sociale della Palermo del 1600 sulle orme del culto di santa Rosalia, la santa dalla parte delle donne: “La Santuzza è una rosa” di Giuseppina Torregrossa


La Santuzza è una rosa
di Giuseppina Torregrossa
Feltrinelli, 14 novembre 2023

pp. 240
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)

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Era entrata nella sua vita la notte della Mezquita. Viciuzza vagava per il quartiere incapace di orientarsi, lei l’aveva accompagnata a casa. Da quel momento era iniziata la loro amicizia. Rosalia era una ragazza bellissima, con lunghi capelli che splendevano come fili d’oro, la pelle bianca, trasparente che nemmeno il marmo delle statue, gli occhi turchesi. Arrivava preceduta da una scia iridescente e da un intenso profumo di rosa. (p. 23) 

Dura la vita di Viciuzza, una babbasuna, ossia una ragazza non proprio sveglia: sua madre si prostituisce in casa, a pochi metri da lei, e se ne libera quando la poveraccia, in seguito a uno stupro di cui neppure si è resa conto, rimane incinta. Per una popolana un po’ sempliciotta, per nulla affascinante e, come se non bastasse, povera in canna e incinta, con una madre prostituta, le prospettive sul futuro si riducono a zero; non le rimane che la vita di repentita, che vive della carità di monaci e badesse in qualche ospizio dedicato. Viciuzza però ha un’amica che tutti vorrebbero avere, un angelo custode, bellissimo, gentile, che la soccorre nel momento di estremo pericolo e che ha una caratteristica peculiare: quando appare si sparge intorno uno straordinario profumo di rosa. Rosalia, anzi che dico, santa Rosalia, è la migliore amica di Viciuzza, arriva sempre al momento giusto, perché ha pietà di una miserabile, povera e diseredata creatura come lei, incapace di badare a sé stessa.
Babbasuna sì, ma che madre! Che madre, questa Viciuzza! E meno male per la piccola Liuzza, perché, a differenza della nonna prostituta, una donna anaffettiva, abbruttita dal “lavoro” e dalla povertà, mamma Viciuzza è una madre esemplare, attaccata alla bambina come all’anima sua!

Nel romanzo ci si imbatte in diversi personaggi, tutti storicamente esistiti: il gesuita padre Giordano Cascini, che, nell’intento di far accettare dalle alte cariche ecclesiastiche santa Rosalia come patrona di Palermo, cerca testimonianze che facciano risalire le origini della santa, attraverso i Sinibaldi e gli Altavilla, direttamente a Carlo Magno; la pittrice Sofonisba Anguissola, che accoglie Viciuzza e la bambina come se le fossero figlia e nipote, il pittore Antony van Dick, che, incitato proprio dal gesuita, lascia le Fiandre per recarsi a Palermo per dipingere la santa delle rose. In tutti questi sotterfugi padre Cascini riscuote le simpatie del lettore per la bontà d’animo e il coraggio di sfidare le feudali cariche ecclesiastiche che a Palermo ormai gli avevano fatto terra bruciata, isolandolo:
I suoi confratelli erano passati da un atteggiamento francamente ostile a una manifesta indifferenza. Lo ignoravano apertamente, evitavano di rivolgergli la parola. Gli pareva di essere diventato trasparente. Calunnie e isolamento sono le armi preferite dai palermitani per uccidere senza spargimento di sangue. (p. 87)
Una Palermo che si appressa ad affrontare la terribile peste bubbonica che decimerà la popolazione, una città crocevia di diverse culture, dove la tradizione autoctona si mescola con sapori orientali sapientemente e pazientemente ricostruita dalla scrittrice, palermitana fin nel midollo. Durante la narrazione ci si sposterà in diversi luoghi importanti per l’economia degli eventi: Roma, Venezia, Anversa. Sarà però Palermo l’ombelico del romanzo e la storia di Santuzza, ossia santa Rosalia, il filo conduttore dell’intero intreccio.
Vi sono scene esilaranti come quelle in cui padre Cascini è affiancato da due pie donne, Mano destra e Mano sinistra, delle vere macchiette con cui Torregrossa riesce a alleggerire la portata di passaggi più drammatici:
Eccoci qua”, urlò allegramente.
“Shhh, non svegliare la bambina,” la zittì Mano sinistra.
L’altra portò entrambe le mani alla bocca per tapparla, sorrideva divertita. Erano così diverse. L’una ridanciana, e con un esasperante ottimismo che rasentava la negazione della realtà, l’altra riservata e con un senso tragico della vita; avevano in comune solo l’affetto per la bambina. (p. 75)

I piatti tipici della tradizione palermitana, i detti, la saggezza della gente umile così come negli altri libri di Torregrossa, non potevano mancare in un libro che è il ritorno della scrittrice a due anni da Il contrario (Feltrinelli, 2021): santa Rosalia, col profumo delle rose che l’accompagna nelle apparizioni, è simbolo di Palermo e della forza delle donne. È lei che accorre invocata dalle povere vittime di violenza, dalle madri in crisi, dalle vedove, sbaragliando le ben quattro sante che pure per tanto tempo proteggevano la città: Santa Cristina, Santa Ninfa, Santa Oliva e Sant’Agata (che passerà poi a Catania). La narrazione è in terza persona e Torregrossa, voce narrante complice insieme a santa Rosalia dei piccoli miracoli in favore di Viciuzza, lascia trapelare compassionevole empatia nei confronti delle donne più sfortunate della storia.

I personaggi, tenendo conto della brevità del romanzo, vengono comunque ben caratterizzati con pochi colpi di penna: Viciuzza, accolta dalla celebre pittrice, fiorirà scoprendo la propria femminilità; la stessa Sofonisba è ritratta nella sua magrezza e nell’immensa bontà d’animo tutta riversa sulle due povere creature che accoglie; padre Cascini corre qui e là nonostante il terribile problema renale che gli blocca a volte i movimenti. Su tutti loro aleggia la misteriosa ragazza che aiuta i poveri, che appare all’improvviso e rende la vista ai ciechi, i neonati alle loro madri disperate e consiglia le donne sole.

“Ma perché proprio Rosalia?” Chiese l’arcivescovo all’improvviso. Le sante e le Madonne abbondavano e lui non riusciva a darsi una spiegazione dell’attaccamento che le donne di Palermo mostravano per la Santuzza.  “Perché ha scelto lei come vivere la sua vita e a noi parla di libertà. […] Si è opposta al matrimonio con Baldovino, ha vissuto come voleva, perciò la amiamo, perché è un esempio, una speranza. Pure per noi prima o poi le cose dovranno cambiare. (p. 220)

Marianna Inserra