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"Le armi della luce": con Ken Follett di nuovo a Kingsbridge, al tempo delle rivoluzioni

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Le armi della luce
di Ken Follett
Mondadori, 2023

Titolo originale: The Armour of Light
Traduzione di Annamaria Raffo

pp. 689 

€ 27,00 (cartaceo)
€ 16,99 (ebook)

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Con Le armi della luce, Ken Follett, dopo Fu sera e fu mattina, torna ancora una volta a Kingsbridge, luogo che lo aveva consacrato alla fama con la trilogia avviata nel 1989 da I pilastri della terra. Se con il romanzo precedente aveva voluto tracciare un prequel di quanto narrato nella sua opera forse più famosa, qui si sposta in avanti di qualche secolo, proseguendo idealmente l’esplorazione dell’età moderna già avviata con La colonna di fuoco, terzo volume della trilogia, ambientato ai tempi delle guerre di religione in Europa.

Il periodo storico coperto da Le armi della luce si estende dal 1792 al 1824. Risulta quindi complesso tracciare una trama di questo romanzo, che segue le vicende di molti personaggi in un lungo arco di tempo, con salti cronologici anche significativi tra le diverse sezioni e un esito che può apparire a tratti disorganico. Centrali nella narrazione sono due cambiamenti epocali: da un lato la rivoluzione industriale in Inghilterra, che travolge il settore tessile a tutti i livelli della filiera produttiva e commerciale; dall’altro gli ultimi scampoli della Rivoluzione francese, guardata con timore dagli altri sovrani europei, a cui fanno seguito le prime coalizioni antifrancesi, che coinvolgono in prima linea l’Inghilterra, e la progressiva affermazione della figura di Napoleone Bonaparte. Se nella prima parte del romanzo il focus narrativo è più incentrato su ciò che succede sul suolo britannico, nella seconda le campagne napoleoniche offrono il pretesto per un ampliamento della prospettiva e vedono alcuni personaggi di rilievo coinvolti in battaglie significative oltre la Manica. A quella di Waterloo, fondamentale per le sorti dell’Europa, sono dedicate circa cinquanta pagine e una sezione autonoma.

Protagonisti sono uomini e donne appartenenti a diverse classi sociali: da un lato i lavoratori, come la tessitrice Sal Clitheroe e il figlioletto Kit, con la sua passione per macchinari e meccanismi, o il ruvido Jarge, angosciato dall’avanzata delle tecnologie e pronto a unirsi alle schiere dei luddisti; dall’altro gli imprenditori illuminati come il giovane Amos Barrowfield o Spade, che commercia in tessuti pregiati, o l’ambizioso e spietato Hornbeam. Ci sono poi i nobili, come Riddick, signore di Bedford, con i figli Will, George e Roger; o Henry Northwood, futuro conte di Shiring e grande esperto di guerra; il vescovo, con la moglie Arabella e la figlia Elsie, generosa e appassionata di cause sociali; ma anche il canonico Midwinter, pastore metodista, con la bella e superficiale figlia Kate, che Amos non smette di amare invano. Le vicende di tutti questi personaggi si intersecano, le une alle altre, o con gli eventi che li circondano, coinvolgono o trascendono. L’autore mantiene la sua promessa di seguire Kingsbridge attraverso i secoli, di farne uno specchio del passaggio del tempo, in grado di riflettere l’evoluzione della società e dell’economia britanniche, come conseguenza di fenomeni locali o di processi e relazioni internazionali. Se però i personaggi devono essere lo strumento attraverso cui questo cambiamento viene reso a livello narrativo, questa volta qualcosa manca.

Da lettrice di lungo corso dei romanzi di Follett, forse per la prima volta ho però l’impressione che la volontà di rendere omaggio alla grande Storia porti talora a sacrificare l’intreccio a livello di microstoria. L’idea di seguire personaggi numerosi e appartenenti a diverse generazioni permette certamente all’autore una visione più estesa del quadro generale, ma il lettore si affeziona meno a ciascuno. Sono pochi, quindi, i protagonisti per cui si riesce a provare vera empatia. Alcuni si fanno portatori di valori apertamente positivi: prima tra tutti Sal, che lotta contro le ingiustizie e i soprusi di un mondo dominato da maschi e vorrebbe uno spazio di affermazione per sé:

“Sei proprio sicura?”
“Di cosa?”
“Di partecipare a questa società.”
“Sì, non vedo l’ora.”
“Perché?”
“Perché io lavoro, dormo e mi prendo cura di mio figlio e non voglio che la mia vita sia solo questo.” (p. 151).

O ancora Amos, che oppone le ragioni dell’etica a quelle dei soldi:

 «Le regole sono regole!» sentenziò Hornbeam.
«E gli uomini sono uomini» ribatté Amos. (p. 537).

Rispetto al passato, però, i confini tra buoni e cattivi sono meno netti. E se questo di per sé potrebbe essere un aspetto positivo, atto a rendere maggiormente la complessità dell’umano, sulla carta funziona meno del previsto: Hornbeam non riesce a essere un antagonista convincente, e anche Will Riddick, arrogante e potente come alcuni grandi personaggi passati di Follett, finisce per sabotare se stesso e uscire di fatto di scena già a metà del romanzo. Il vero nemico, semmai, quello più difficile da combattere è un governo inglese riluttante al cambiamento, un conservatorismo che stronca le riforme e fa ricadere il peso di leggi retrograde e violente direttamente sulle frange più deboli della popolazione.

Forse anche per questo, l’inserzione di alcuni comprimari risulta sottilmente forzata, funzionale alla necessità di trattare alcuni argomenti specifici (è il caso, ad esempio, del barcaiolo Jim Pidgeon arruolato forzosamente nella Marina britannica dalla press gang, e della sua famiglia conseguentemente ridotta in rovina).

Ken Follett dedica il romanzo agli storici, «instancabili nella loro ricerca della verità» e fondamentali per la comprensione del presente. Si percepisce più che mai l’ambizione a creare un’opera di ampio respiro, che rivela però qualche inaspettata fragilità a livello attuativo. Gli amanti dell’autore continueranno a restargli devoti e ad apprezzare il suo lavoro di approfondimento, senz’altro notevole. Per chi non lo conosce ancora, però, questa potrebbe non essere l’opera migliore da cui iniziare l’esplorazione del microcosmo di Kingsbridge. 

Carolina Pernigo