di Giuseppe Quaranta
Blu Atlantide, novembre 2023
Deltito si sentiva unico, come forse tutti quelli che hanno una malattia rara di cui fino al suo esordio non avevano mai sentito parlare. Si diceva: io non so cosa ho. Ed era talmente viva l'idea che qualcosa di estraneo alla propria natura gli avesse giocato un brutto tiro, che nemmeno per un attimo pensò che forse era meglio dire a sé stesso: io non so cosa sono. (p. 31)
Esiste un rapporto profondo tra Deltito e chi ce ne parla, un collega più giovane che ne segue le orme nelle quattro parti che compongono la storia. La scelta di legare quanto accade a Deltito a quanto succede a chi lo racconta rimanda alle fortunate narrazioni di Carrére ed è adatta a un racconto sfaccettato, dinamico, avvincente.
Talvolta avevo l'impressione di essere legato al mondo attraverso pochi fili sottili, a cui riservavo ogni premura. Se si fossero rotti mi sarei arenato per sempre in qualche deserto dell'esistenza. Uno di questi fili, lo appresi nel tempo, era Antonio Deltito. (p. 34)
La curiosità dell'uomo per la vicenda dell'anziano collega vive di iniziale, comprensibile scetticismo: i racconti di Deltito somigliano ai deliri di un folle. Finché Deltito si uccide. Perché come aveva sentenziato, chi è affetto dalla sindrome non ha altra strada per sconfiggere la morte. Ed è in quel momento che tutte le storie sulla patologia e i suoi fantomatici studiosi - i Ræbensonologi - prendono consistenza. La sindrome di Ræbenson diventa il resoconto dell'uomo che dedica la sua esistenza alla ricerca della verità di Deltito, che in fondo è anche la sua, un individuo talmente attratto dai segreti di Antonio da finirne assorbito: l'uomo avrà una relazione con la vedova di Deltito venendo a conoscenza del macabro destino toccato ai due gemelli messi al mondo dalla coppia.
Sai cosa diceva il grande matematico Poincaré? Le classificazioni sono come gli imperi, il loro domani è incerto. (p. 140)
Io pensavo a quanto spesso siamo incoscienti del pericolo che ci orbita attorno, a come finiamo per ignorarlo; quanto più continuiamo a proiettarci nel futuro. Tanto più la vita, rovinando, ci disorienterà mostrandoci come tutto fosse appeso alla regolarità di un battito di cuore, all'oscillare su e giù di un diaframma. Cose esili e impalpabili reggono l'universo. (p. 73)
Gradualmente, il romanzo di Giuseppe Quaranta smembra le classificazioni psichiatriche e le più solide certezze dell'animo. Dopo il ritrovamento di un testo redatto da un medico in grado di provare l'esistenza della sindrome nel figlio, la verità non lascia più scampo. Ed è una verità crudele, che fa della patologia una condanna alla solitudine, una maledizione resa vana solo dalla morte autoinflitta: perché le coordinate dell'immortalità conducono all'infelicità perpetua - perché se tutto svanisce tranne noi, saremo i soli a restare, gravati dal peso dell'assenza di chi abbiamo amato e perduto, ma non dimenticato.
"Il destino immortale che riservò a mio figlio quella spaventosa vertigine fu combattuto strenuamente da migliaia di tentativi fatti fin dalla tenera età per ostacolare quel processo infinito. Tentativi di morte si susseguono numerosi, la morte verde come finii per chiamarla anni fa, quel tono cromatico che sembra lo spettro di una foresta da incubo, è il segno della vita che si oppone alla vita. Dell'anima che si oppone a un ciclo di trasmigrazioni infinito o di un eterno perdurare in un corpo. Perché il colore verde? A meno che non possa sembrare una forzatura, ma è il colore del verde, dei prati, del fogliame. Mi piace pensare che venire avvolto da quella sfumatura verdastra sia la nostra resa alla natura", scriveva il dottore. (pp. 156-157)
"Io posso dirle, a grosse linee, quel che succede, probabilmente, a chi ha la sindrome". Lo fece citandomi quel passo nel Fedone di Platone dove si parla dell'anima che prende congedo dal corpo. "Socrate dice", continuò, "che questo passaggio è possibile solo se l'anima è rimasta, durante tutto il tempo della sua discesa nel corpo, raccolta in sé stessa, quindi pura. Cosa è questa preparazione, se non un esercizio di morte? Nella sindrome di Ræbenson quest'esercitazione finisce per essere fallimentare, un meccanismo si inceppa, ed è a questo punto lo scatenarsi di una bufera di sintomi, al termine della quale il tentativo di morte viene abortito. La condizione di immortalità, mantenuta. Ma a che prezzo? Una sofferenza immane." (pp. 169-170)
La sindrome di Ræbenson mischia una ricerca incessante a suggestioni filosofiche di matrice orientale, rievoca Huxley e il doppio di Borges, diventando un libro di concetti e azione, ritmo e riflessioni sull'immortalità come profondo stadio della solitudine - una grande storia che merita grande attenzione per gli interrogativi che solleva e la bellezza narrativa e letteraria di cui si fa portavoce. Un libro che presenta le malizie e il coraggio del grande romanzo ed è destinato a far parlare a lungo di sé.
L'innegabile elenco degli svantaggi dell'immortalità in un sistema organizzato come quello era quanto di più mostruoso potesse accadere a un essere umano. Mi venne in mente una frase: prima che la morte diventi oggetto di desiderio, è la vita a divenire oggetto d'indifferenza, di noia, di disgusto, di orrore e di disprezzo... il dolore dell'autoconservazione dipende solo dal diritto alla felicità. (p. 228)
La tua anima era lì, quella sera io la vidi. Era là, alla ricerca di una soluzione per liberarsi dall'incantesimo di un'esistenza infinita e colma del dolore più profondo: l'essere sopravvissuti alla persona che abbiamo amato. (p. 261)
Daniele Scalese
Social Network