La cura di ciò che è fragile: la Natività secondo Selma Lagerlöf, nei racconti de "La notte di Natale"

 




La notte di Natale. Le leggende di Gesù
di Selma Lagerlöf
Iperborea, 2015

Traduzione di Maria Svendsen-Bianchi

pp. 192
€ 15,50 (cartaceo)
€ 3,99 (ebook)

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Inizia in sordina, da una storia di famiglia, ma si capisce presto quanto La notte di Natale di Selma Lagerlöf ruoti intorno non tanto (o non soltanto) al tema della Natività, ma a quello dell’importanza delle storie. Sono queste a spalancare mondi, disvelare verità, plasmare l’esistenza attraverso il sogno, o l’immaginazione. Sono le storie che una nonna perduta raccontava alla nipotina, le storie che ha portato con sé morendo, quando il mondo improvvisamente è diventato un po’ più triste e vuoto. È la lieta novella dell’avvento di un bambino che salva, che schiude gli occhi di un pastore prima accecato dall’avidità e dalla grettezza e poi improvvisamente aperto all’amore. È la profezia della Sibilla, che fa vedere ad Augusto un mondo lontano, in cui sta accadendo qualcosa che lo trascende: 

E l’imperatore alzò gli occhi e vide. Lo spazio si aprì davanti a lui e il suo sguardo penetrò fino alla remota terra di levante. Vide una povera stalla sotto una parete scoscesa di roccia e sulla porta aperta alcuni pastori genuflessi. E all’interno della stalla vide una giovane madre in ginocchio davanti a un neonato adagiato su un fascio di paglia sul pavimento. (p. 22)

Persino la Siccità, arida e crudele, ne “Il pozzo dei Magi” si fa più mite mentre racconta la storia di tre uomini uniti e messi in moto da un unico destino, in una notte lontana.

La notte di Natale è una raccolta di racconti sull’avvento di Gesù Bambino, ma è anche una storia di occhi, di sguardi, di incontri e di momenti rivelatori. Personaggi e vicende note, attinti dai Vangeli canonici o da quelli apocrifi, dalla tradizione scritta o da quella orale, vengono riletti in una chiave nuova, in un’ottica morale, ma non moralistica. I personaggi sono talvolta spiazzanti o marginali (un soldato di Erode di guardia alla città; l’imperatore Augusto; Faustina, nutrice di Tiberio; una palma nel deserto; Gesù e San Pietro in Paradiso; Raniero de’ Pazzi nella Firenze ai tempi della prima crociata); spesso cadono, sbagliano, imparano.

Raniero, il più violento e brutale dei cittadini di Firenze, cambia nel momento in cui si fa carico di una missione grande e impossibile, custodire il fuoco sacro e tenerlo vivo nel viaggio tra Gerusalemme e Firenze. Il desiderio che lo muove nell’adempimento del suo voto rivela il suo valore etimologico, è mancanza che spinge al movimento, ricerca inesausta di qualcosa di cui si avverte il bisogno per poter finalmente trovare un senso, una pienezza esistenziale. Si capisce in questo racconto, uno dei più lunghi della raccolta, che anche le vicende che apparentemente non hanno a che fare col Natale in realtà lo implicano, ne tangono il significato più profondo. Raniero realizza progressivamente l’importanza di proteggere ciò che è fragile, sia esso il fuoco sacro acceso al Santo Sepolcro, o l’amore che lo legava un tempo alla moglie Francesca, e «per la prima volta capì di non essere più lo stesso uomo che era partito da Gerusalemme» (p. 179). Questo istinto di protezione, slancio di cura, non è diverso da quella tenerezza che muove i pastori davanti all’infante nella stalla, o il soldato di Erode davanti a un bambino che gli ha portato con le sue mani un goccio d’acqua, o Faustina di fronte al corpo caduto di un uomo sul Calvario.

L’autrice, del resto, non è delicata nel condannare alcuni comportamenti, come la violenza dei crociati durante la presa di Gerusalemme, o l’ipocrisia di chi non riesce ad amare altro che se stesso: 

“E io cosa ho desiderato di più che preparare a voi tutti un paradiso di sola luce e felicità?” chiese [Nostro Signore a San Pietro]. “Non capisci che è per questo che sono sceso tra gli uomini e ho insegnato loro ad amare il prossimo come se stessi? Ma finché non lo faranno, non ci sarà alcun rifugio, né in cielo né in terra, dove il dolore e la tristezza non possano raggiungerli”. (p. 148)

La semplicità apparente delle narrazioni viene stemperata dalla capacità di Lagerlöf di cogliere in poche parole il dettaglio fondamentale, dalla vividezza delle sue descrizioni. Il sacro è qualcosa che viene suggerito dai testimoni, dalla natura partecipe, dalla percezione di chi si trova in contatto con qualcosa di più grande e ancora sconosciuto, perché la sacra famiglia, in ogni apparizione all’interno del volume, è solo un bambino con un papà e una mamma. Nessuno di loro viene chiamato per nome e la relazione che li lega è tutta umana. Per la madre e il padre, accettare che il figlio sia chiamato a un destino di grandezza e sacrificio è arduo («Cosa gli porterebbero gli onori regali, a parte seccature e pericoli? Ho sempre detto sarebbe meglio per lui come per noi che non diventasse altro che un falegname di Nazareth», p. 68). Eppure i prodigi che lo circondano, che avvengono intorno a lui non per sua volontà, ma perché il creato lo asseconda, si piega a lui, sono segnali troppo grandi per poter essere ignorati. Quando il ragazzino dodicenne entra nel tempio, nel racconto omonimo, la verità appare evidente. Anche se il figlio, interpellato dai sacerdoti, accorre al richiamo dei genitori, la madre non può darsi pace: «Figlio mio, […] piango perché ti ho comunque perduto. […] D’ora in poi l’aspirazione della tua vita sarà la giustizia, il tuo desiderio sarà il paradiso, e il tuo amore abbraccerà tutti i poveri uomini che popolano la terra» (p. 83).

Selma Lagerlöf è autrice abile nel narrare il riconoscimento (centrale in alcuni romanzi come L’imperatore di Portugallia o Il violino del pazzo). Anche qui, i protagonisti dei diversi racconti, in modi differenti, sono messi di fronte a momenti di verità. Straziante è ad esempio il ritratto di Tiberio di fronte al velo della Veronica, in cui vede impressa l’effigie di colui che, solo, avrebbe potuto salvarlo – e di fatto lo salva. Lui, imperatore pagano, dai molti dei, si lascia toccare per la prima volta e nella scoperta dell’altro si rivela a sé stesso:

“Tu sei l’uomo, […] tu sei quello che non avrei mai creduto di poter vedere.” E indicò il proprio volto sfigurato, le mani distrutte. “Io e tutti gli altri non siamo che belve, siamo mostri, ma tu sei l’uomo.” (p. 136).

Il cambiamento passa sempre, necessariamente, attraverso questa duplice agnizione, che è filo conduttore di tutti i testi e che li rende universali, al di là della matrice religiosa che offre lo spunto narrativo.

Carolina Pernigo