Il velo dipinto
Traduzione di Franco Salvatorelli
pp. 234
Una vita in superficie
Figlia di una famiglia altoborghese e ambiziosa
della Londra bene, Kitty è una giovane donna superficiale, viziata, abituata a
essere al centro dell’attenzione. La sua scelta di sposare il dottor Walter
Fane è dettata dal calcolo, non
dall’amore, e la loro vita a Hong Kong, dove lui lavora come batteriologo,
non ha niente dello sfarzo e del successo sociale che lei si aspettava. Ecco
perché, da quando conosce il vicesegretario della colonia Charles Townsend, i
confronti con il marito sono inevitabili, e impietosi.
La loro relazione, che si consuma nell’arco di
pochi mesi, la restituisce a se stessa, rendendola radiosa, infatuata come mai
prima, e la porta a vedere dell’amante solo i lati positivi, come la prestanza
fisica e la vivacità, e a trascurare una certa tendenza manipolatoria, un certo
narcisismo, una certa inconsistenza.
La scoperta della loro storia da parte di Fane viene descritta da Maugham, che si conferma maestro della parola, osservatore attento delle dinamiche interpersonali, sfruttando tutte le tecniche della tensione: la maniglia di una finestra che ruota lentamente sull’adulterio consumato, il silenzio che è baratro e coltello tra marito e moglie, una apparenza di normalità mantenuta con un sorriso rigido e teso sopra occhi scuri e vuoti.
Walter non disse niente. Lo guardò disperata e trattenne a stento un grido: la sua faccia aveva una sorta di nero pallore che l’atterrì. Vi vide una sembianza di odio. Possibile che volesse la sua morte? Rispose da sé a questo pensiero folle. (p. 65)
Se è data davvero una scelta
La
scelta che Walter offre alla moglie è netta: recarsi con lui a Mei-tan-fu, una
regione rurale colpita da una pesante epidemia
di colera, oppure essere coinvolta in uno scandalo e in un processo. Solo
se Townsend si impegnerà a divorziare e a sposarla a breve, transigerà su
questo accordo. Ma l’amante, messo alle strette, rivela improvvisamente la sua
natura gretta e pavida, il suo egoismo, e Kitty lo realizza in un attimo di consapevolezza:
Kitty lo guardò con calma.
“Sapeva che mi avresti piantata.”
Tacque. Vagamente, come quando si studia una lingua straniera e si legge una pagina senza dapprima comprenderne nulla, finché una parola o una frase d’un tratto ci illumina, e un sospetto del senso, per così dire, balena nella mente confusa, così, vagamente ella ebbe un sentore dei congegni mentali di Walter. Fu come un paesaggio oscuro e sinistro intravisto alla luce di un lampo e subito inghiottito di nuovo dalla notte. Rabbrividì a quella vista. (p. 83)
Partire è un po’ morire, scriveva Haraucourt. Per Kitty, però, il viaggio assume tutta la concretezza, materica e non solo emotiva, di un presagio oscuro: «Basterà, suppongo, che porti qualcosa di estivo e un sudario, no?”» (p. 85), chiede sarcastica al marito. Lei lo prende su di sé come un fardello inevitabile, nel cuore scosso dalla delusione profonda di una passione che non riesce a eradicare, e in cui non trova spazio alcun senso di colpa, bensì una intima, taciuta ribellione.
Come si cambia (per non morire)
L’esperienza di Mei-tan-fu, e della solitudine estrema che lì è costretta a sopportare, è per Kitty rivelatrice
sotto molti aspetti, e a tratti contraddittoria. Nel dolore infinito e radicato che la donna prova si possono aprire scorci improvvisi di bellezza;
nell’isolamento di un luogo che sa di frontiera – tra Oriente e Occidente, tra
civiltà e barbarie, tra vita e morte – è possibile trovare amicizie inaspettate, come quella con Waddington, funzionario della
dogana, uno di quei personaggi luminosi che sempre rischiarano le opere di
Maugham; è lui che disvela a Kitty la realtà del paese, e glielo fa sembrare
meno ostile.
Mentre lei e il marito combattono una battaglia silenziosa, in cui l’amore deluso e il rancore paiono legarsi inestricabilmente, in cui mettersi continuamente in pericolo pare tanto una sfida all’altro quando l’espressione di un desiderio di annientamento di sé, qualcosa nella protagonista inizia a cambiare. Ecco allora che Il velo dipinto assume, sottilmente ma inesorabilmente, i tratti non già di una storia di matrimonio, adulterio e forse perdono, ma di un romanzo di formazione. Perché la prima persona che deve imparare qualcosa, perdonare qualcosa è Kitty, e in primo luogo a se stessa. Il percorso passa attraverso una fuoriuscita da sé e il confronto con l’altro: le suore missionarie, generose e dedite a qualcosa di grande, da cui lei sente di essere ancora esclusa; la principessa manciù di Waddington, che le mostra il varco verso un Oriente misterioso, in cui si annida una qualche verità (“Qui c’era una vita diversa, vissuta su un piano diverso”, p. 164); le piccole orfane cinesi che smettono di sembrarle estranee e ostili perché la guardano con occhi con cui lei non si è mai vista. E Mei-tan-fu, dove la morte è sempre possibile e vicina, diventa luogo di rivelazione, prima di tutto della futilità delle passioni e del risentimento serbato, dell’inconsistenza di un amante vuoto, di una relazione che è stato per la protagonista un modo per sentirsi più viva, del marito, che viene finalmente visto davvero, nel suo spessore di uomo, seppur ancora non amato.
Sì, aveva vestito una bambola di abiti sfarzosi e l’aveva messa su un altare per adorarla, e poi aveva scoperto che la bambola era piena di segatura; per quest0, non riusciva a perdonare sé stesso né lei. La sua anima era lacerata. Aveva vissuto in una finzione, e quando la verità l’aveva mandata in pezzi, gli era perso che andasse in pezzi la realtà stessa. (p. 129)
Non basta il cuore
Eppure, a differenza di quanto accade nel film di
Norton, nel volume non è possibile – come non è lo mai – facile pacificazione.
Chi conosce Maugham sa che è un autore troppo intelligente per indulgere in
soluzioni facili e consolatorie. Così i dialoghi
sono lapidari, a tratti feroci, e
affondano nel nucleo incandescente delle cose, delle relazioni, del senso
dell’esistenza, dei protagonisti e in generale. Le ferite inflitte agli altri, ci ricorda l’autore, non sono sempre sanabili. Quello che
resta, allora, è fare del proprio meglio, perseguire una via in cui a essere
sanato sia, almeno, il proprio cuore.
Si è parlato spesso dello sguardo misogino dello
scrittore, e certamente la Kitty che viene presentata all’inizio del romanzo
non è atta a suscitare simpatia nel lettore. Neanche i protagonisti maschili,
del resto, sono presentati positivamente, perché quello che fa Maugham è solo togliere un velo dalla realtà, dalle
relazioni spesso complesse e sfaccettate, spesso squilibrate, che legano gli
uomini e le donne del suo tempo. Torna ancora una volta il tema insito nel
titolo e, d’altronde, il concetto dello svelamento
è insito, etimologicamente, nella parola greca che indica la verità.
L’episodio della dantesca Pia de’ Tolomei, cui Maugham esplicitamente si ispira, agisce qui
al contrario: lì la Maremma disfa, qui la Cina ricostruisce, rimette insieme.
Non una coppia, bensì una donna. E
Kitty, permeabile al vissuto come permeabile è ciascun essere umano, impara, e
capisce cosa vuole di diverso per il futuro, laddove il passato è irrimediabilmente
segnato e il presente diventa momento, precario e intensissimo, di presa di
coscienza del sé:
Voglio una figlia femmina perché voglio allevarla in modo che non faccia i miei sbagli. […] Alleverò mia figlia in modo che sia libera. […] Sono stata sciocca, cattiva, odiosa. Sono stata terribilmente punita. Sono ben decisa a salvare mia figlia da tutto questo. Voglio che sia impavida e schietta. Voglio che sia una persona, indipendente dagli altri perché padrona di sé. (p. 233)
Carolina Pernigo