di Zadie Smith
Mondadori, ottobre 2023
Traduzione di Dario Diofebi
pp. 492
€ 22 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Zadie Smith non ha scritto un romanzo storico. Zadie Smith è tornata indietro nel tempo, nell’Inghilterra vittoriana, si è seduta accanto ai protagonisti della scena letteraria del tempo, ha letto i giornali, ascoltato le chiacchiere delle persone tra le strade di Londra; poi è tornata nella sua casa di Willesden, quartiere londinese dove è cresciuta e risiede tuttora, ha tirato fuori la propria caratteristica voce autoriale e ha scritto una storia basata su eventi reali, che intreccia personaggi storici e vicende immaginate, perfettamente calata nel tempo ma allo stesso tempo intrisa di contemporaneità come lo è sempre la sua scrittura. L’impostore dimostra ancora una volta l’orecchio per i dialoghi di Smith, l’ironia, la precisione, la prosa perfetta resa qui dalla traduzione di Dario Diofebi il quale si è confrontato con un testo complesso, stratificato, dallo stile brillante e mutevole, che insegue punti di vista e piani temporali differenti. Un lavoro notevole, sicuramente non facile.
Facile però è restare ancora una volta ammaliati dal potere affabulatorio della voce di Smith che fin dall’esordio – con lo straordinario Denti bianchi, pubblicato quando aveva ventisei anni – ha saputo catturare il lettore con le sue storie perfettamente calate nella contemporaneità, lo sguardo lucidissimo sul dettaglio. Viviamo lo stesso mondo di Smith eppure lei vede qualcosa che alla maggior parte di noi sfugge ed è proprio quella postura autoriale a farne una delle più acute scrittrici in circolazione. Un’intellettuale, se non sapessimo che l’etichetta le fa alzare gli occhi al cielo.
Questa volta cambia direzione, almeno in apparenza, e al presente preferisce la Londra vittoriana in quello che, come si diceva, è sì un romanzo storico per ambientazione e personaggi, ma la narrazione è assolutamente contemporanea. L’impostore si muove tra l’Inghilterra e la Giamaica – all’epoca colonia dell’impero britannico – e si innesta sul caso giudiziario più famoso dell’epoca vittoriana, che ha appassionato l’opinione pubblica e acceso il dibattito a ogni lato della scala sociale. L’uomo che fa ritorno dopo un naufragio e una lunga lontananza è davvero chi dice di essere, Sir Roger Tichborne, erede di un’illustre famiglia londinese? E chi è, qual è la storia di Andrew Bogle, il suo servitore nero che sostiene fermamente l’onestà di quanto dichiara il Pretendente? Il caso anima il dibattito tanto in tribunale quanto nelle strade e nei salotti e nemmeno la sua conclusione giudiziaria figherà definitivamente ogni dubbio.
Intorno a questa storia, a partire da essa, Zadie Smith compone un romanzo in cui la realtà si fonde all’invenzione letteraria, le vicende storiche si intrecciano a quelle private e non è poi così importante tracciare un netto confine. Un testo particolarmente stratificato, dalle chiavi di lettura molteplici che ancora una volta, nonostante l’ambientazione storica, dialoga perfettamente con la contemporaneità: Smith riesce a fondere elementi narrativi caratteristici del novel vittoriano a elementi odierni, in una storia composta quindi da una pluralità di personaggi, digressioni, punti di vista che si alternano, piani temporali differenti e una prosa ricercata, elegante e salda senza mai eccedere.
Ma L’impostore è anche soprattutto il ritratto di un preciso ambiente, quello dei circoli letterari, le cui dinamiche non sono poi tanto distanti dal sistema attuale. Smith ricostruisce la parabola di William Ainsworth, autore di romanzi storici che per un momento della sua carriera conobbe grande fama – il suo Jack Sheppard vendette all’inizio più copie di Oliver Twist – protagonista della scena culturale londinese del tempo. Di lui, delle sue numerose opere, non resta oggi molta traccia e sono rari gli studi che lo riguardano, ma è proprio intorno ad Ainsworth che Smith intesse una trama di rapporti personali, segreti, passioni, frustrazioni, mentre tra le pagine prende vita la Londra letteraria della piena età vittoriana, il volto pubblico e quello privato. E dà voce, modificandone un poco gli elementi biografici e attingendo alla propria fantasia di romanziera, alla cugina di Ainsworth, la signora Eliza Touchet, che rimasta vedova piuttosto giovane e dai mezzi limitati viene accolta come governante nella casa dello scrittore. È soprattutto attraverso il suo sguardo che seguiamo la vicenda e proprio il punto di vista interno della signora Touchet crea un efficace equilibrio tra svelamento e omissione, tra ciò che viene narrato e ciò che possiamo solo intuire. Sono molti i segreti di cui la donna è custode, a partire dai sentimenti che la legarono alla prima moglie di Ainsworth, Frances, prematuramente scomparsa. Una casa che per un certo tempo risuona solo di voci femminili: Ainsworth è impegnato nelle sue “ricerche” sul continente, è nei salotti insieme ad altri romanzieri, lontano da Londra e da una moglie cui non presta mai particolare attenzione. Il legame tra Frances e Eliza si fa invece sempre più saldo e i sentimenti, almeno da una parte, si trasformano dall’affetto a qualcosa di profondo, non ricambiato con la stessa intensità. Il ritorno di Ainsworth infrange quell’equilibrio femminile e non resta che esercitare il proprio potere in un’altra direzione.
Punire e corrompere un uomo soltanto perché egli è amato dalla donna che tu ami, e che lui non ha saputo amare, o non ha amato abbastanza. (p. 140)
Il destino di Frances è quello dell’eroina tragica, consumata dalla mancanza d’amore:
Si può morire di un cuore spezzato? Nei romanzi capitava. E capitava anche di essere “troppo buoni per questo mondo”. Erano luoghi comuni che la signora Touchet aborriva, eppure lì, in quella piccola stanza, le venivano incontro con indosso gli abiti della verità. Questa giovane donna aveva il cuore spezzato. I dottori andavano e venivano e davano al suo male nomi diversi, ma in qualunque modo lo chiamassero non erano in grado di guarirlo. Era troppo buona per questo mondo. (p. 140)
Eliza resta nella casa di William, si prende cura a suo modo di lui e delle tre giovani figlie, ma il vuoto che Frances ha lasciato la accompagnerà sempre, si intreccia alla colpa, alla punizione, al ricordo e sarà sempre l’occasione per pensare al significato dell’amore, del matrimonio, alla duplicità delle relazioni.
Finché professeremo di credere che due persone possano felicemente – anche solo realisticamente – investire tutto l’amore e l’interesse di questo mondo soltanto l’uno verso l’altra, finché morte non li separi, bè, allora la vita, per breve che sia, continuerà a essere un’umana commedia, punteggiata di momenti di tragedia. Questo era ciò che pensava di solito. Ma poi c’erano quei momenti di grazia nei quali stupiva sé stessa con l’idea che se soltanto comprendessimo cosa significhi davvero la parola “persona”, d’un tratto dodici vite ci sembrerebbero un tempo troppo breve per riuscire ad amare anche una sola donna. (p. 211)
La scena letteraria inglese anima per almeno un decennio la tavola di Ainswoth ed è ancora attraverso lo sguardo di Eliza che ne intuiamo le ombre, le ambiguità, i rapporti impostati sull’apparenza, la convenienza di certe amicizie. Inseguendo la narrazione da un piano temporale all’altro il lettore è fin da principio consapevole che da quella scena letteraria Ainsworth è a un certo punto finito sullo sfondo, mentre altri come Dickens sembrano conoscere un’ascesa inarrestabile. Ed è attraverso il suo sguardo, quindi, che Smith ci dona riflessioni molto interessanti sull’ambiente letterario, sui rapporti che si intrecciano tra scrittori, gelosie e convenienza, non così distanti dalla realtà attuale.
Quella che così scioccamente chiamiamo “la scena letteraria” – un’espressione volgare e ridicola in ogni caso – non è altro che un “tu elogia me che io elogio te”, tutto fatto in nome dell’amicizia, giorno e notte. (p. 413)
Inevitabile lo scontro tra Ainsworth e Dickens, una frattura che non verrà mai sanata, così come altri rapporti che fluttuano tra necessità, apparenze, stima, convenienza, rivendicazioni e rancori. Se c’è una cosa però che al personaggio di Ainsworth tratteggiato dalla penna di Zadie Smith va riconosciuta è la sua assoluta fiducia nelle proprie capacità letterarie, che non pare vacillare mai, nemmeno di fronte alla sempre più evidente indifferenza del mondo. Una sicurezza che sconfina in una certa boria maschile, convinto che il rispetto, il riconoscimento e l’attenzione del pubblico siano qualcosa che gli spetta di diritto.
È quindi William Ainsworth, in fondo, l’impostore del titolo?
Forse. Ma la stessa risposta vale anche per Eliza Touchet, il personaggio più affascinante di questa storia e uno dei più interessanti creati da Zadie Smith, fatta di carne e sangue, mutevole, umanissima; custode di segreti, desideri, passioni, la lingua tagliente. Eliza è una donna costretta alle regole del proprio tempo ma che brama la libertà: quella di far sentire la propria voce, di muoversi per le strade e seguire ambizioni e desideri personali, qualunque essi siano.
Come si sarebbe sentita a poter dare un nome a tutte queste persone e desideri diversi che portava dentro di sé? (p. 472)
Eliza Touchet, come molte donne, contiene mondi dentro di sé e il desiderio di poter essere ciò che vuole, muoversi nel mondo al pari degli uomini che le stanno intorno così spesso inconsapevoli del privilegio che possiedono e impauriti dalla libertà che altre donne come lei stanno reclamando. Sul finire del secolo emergerà la figura della New Woman, poi sempre più forti si sentiranno le voci delle suffragette, ma il seme del cambiamento è già nel pieno dell’epoca vittoriana, con le sue contraddizioni, le ombre, i mutamenti in atto. Una società complessa, tesa tra modernità e tradizione e la questione coloniale.
La riflessione su abolizionismo e politica coloniale incendiano le pagine e si inseriscono in una narrazione che appunto si diceva stratificata e piena di spunti, senza però farsi mai strabordante e di cui Smith riesce brillantemente a tenere le fila, restituendoci parte della complessità del mondo evocato e mettendo in evidenza dall’uno all’altro tema il legame non esaurito con la contemporaneità. Il mondo letterario e le sue regole, la questione razziale, le relazioni, le varie sfumature della parola libertà, l’indipendenza femminile, sono alcune delle tematiche più urgenti che si inseguono pagina dopo pagina, in un romanzo che ancora una volta dimostra la salda presa narrativa di Smith, lo sguardo ancorato alla contemporaneità perfino quando rivolge l’attenzione al passato e una prosa sempre curatissima, misurata, attenta a non cadere nel didascalico e nemmeno a farsi pomposa. L’equilibrio e la misura stilistica con cui l’autrice intesse le parole rendono la complessità di ciò che viene narrato, che va quindi dalle questioni politiche a quelle sociali, dalla vita pubblica a quella più intima e privata, con la stessa grazia e profondità di analisi.
Qual è, quindi, il centro nevralgico di questa storia, da cui si irradia tutto il resto? È il processo al Pretendente e tutto ciò che comporta. Sono i tumulti del cuore di Eliza Touchet, il suo interesse sempre più urgente per la storia di Andrew Bogle e la questione coloniale. È il ritratto della scena letteraria dell’epoca vittoriana. Sono, tutte quante queste cose, in relazione alla realtà contemporanea.
Ognuna di queste cose è vera, ma il centro nevralgico de L’impostore, almeno nella mia personale lettura, risiede in un mistero anche in questo caso non svelato, nella domanda che si pone Eliza e che inseguiamo lungo tutta la narrazione:
Che cosa possiamo sapere degli altri? Quanto del mistero di un’altra persona ci è possibile intuire attraverso la nostra intelligenza? (p. 156)
È qui il centro, è qui ogni cosa. Eliza non troverà risposta, non dove la cercava almeno, e non è compito del romanziere fornircela, non lo è mai. Quello di Zadie Smith è puntare il nostro sguardo verso quegli angoli bui, metterci davanti all’evidenza della complessità dei sentimenti e delle persone.
Al mistero che racchiudono, e che non penetreremo mai del tutto.
Debora Lambruschini
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