Gli anni alle spalle e i nodi di dolore che non si sciolgono: Mauro Corona, con "Le altalene", ci lascia il racconto della sua vita

 

Corona-Le-altalene

Le altalene
di Mauro Corona
Mondadori, 2023

pp. 174
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Se la vita è un’altalena il “viaggio” di andata si fa da giovani, con il sole in fronte e lo sguardo proiettato al futuro. È un lancio luminoso, pieno di aspettative e speranze, mentre il seggiolino si affolla di tanti visi, persone che condividono un tratto di vita. Finché l’altalena arriva all’apice della spinta. Poi piano piano inizia il ritorno che invece è un rimbalzo nell’ombra, verso il passato, con il seggiolino che a poco a poco si svuota … è un ripiegarsi su se stessi fino al momento in cui l’altalena si fermerà per sempre. A dare vita a quest’immagine è un vecchio che non riesce a scrollarsi di dosso il passato… ed è questo l’assunto da cui parte l’ultimo libro di Mauro Corona, Le altalene (Mondadori).

La produzione narrativa di Corona si divide sostanzialmente in due filoni, i romanzi veri e propri, come per esempio il libro uscito nel 2022, Quattro stagioni per vivere (qui la nostra recensione), e narrazioni più intimiste nelle quali l’autore torna ai ricordi della sua vita, alle stagioni passate, alle voci di chi non c’è più, ai rimpianti, ai rimorsi. Ed è questo il caso di Le altalene, che, più che un romanzo, si può definire un memoir, uno scritto-confessione nel quale Corona fa il bilancio della sua vita, ricostruendo, a beneficio del lettore, l’adulto che è diventato e che il tempo e soprattutto gli eventi, i sentimenti, il dolore hanno contribuito a plasmare. Quasi un testamento spirituale, alla soglia di quella che lo scrittore definisce l'ultima età.
Le stagioni si davano il cambio, una dopo l’altra andavano e tornavano, come le altalene, come i giorni e le notti. Per loro erano tutte belle. Forse amavano più l’estate ma chissà, anche no. Curiosi, impegnati a cercare, scoprire, imparare, trovavano sempre il modo di annientare le ore tristi. Ogni stagione regalava ai bambini cose belle. Perché erano loro che le vedevano belle (p. 34)
Un racconto, doloroso, a tratti faticoso, in terza persona, nel quale Corona, "il maggiore" (dei tre fratelli) come si autodefinisce, non fa sconti a se stesso e al suo passato. Apre la sua anima al lettore e gli mostra le ferite dell'infanzia, tagli che si sono rimarginati a fatica, come vecchie cicatrici ricucite alla bell’e meglio, con mezzi di fortuna. Squarci che hanno provocato un dolore che non passa, è sempre lì e si ripresenta implacabile nelle notti insonni del vecchio, da sempre abituato a dormire pochissimo, affamato di vita fin da piccolo, quando aveva già capito che una vita sola non gli sarebbe bastata.
Personalmente prediligo i tanti romanzi dello scrittore, mi sembra abbiano un surplus di energia (nonostante anch'essi siano spesso velati da un’aura di malinconia e di saggezza “montanara”, cifra stilistica che si è ormai assestata nell’ultimo Corona). I libri più lirici, più intimistici come questo rimandano l’immagine di un anziano ormai fermo, che ripercorre il passato e che di fronte a sé non vede più futuro. Una rappresentazione che stride con quella che Corona dà di sé, impegnato a scalare rocce o cascate di ghiaccio, asciutto come a trent’anni, svelto come un gatto. In lui le due anime convivono e a volte la tentazione di lasciarsi ghermire dal tempo andato ha il sopravvento.
Ed è un passato che non può prescindere dal tema dell'abbandono. Mauro e i suoi due fratelli crebbero "orfani di genitori vivi" (come più volte Corona afferma).
La figura che si staglia a tutto tondo, vero protagonista negativo, è il padre. Un uomo di una violenza bestiale, capace di esprimersi solo con le mani e con i piedi, di una cattiveria indotta, chissà, dall’ignoranza, dalla genetica, dall’abitudine. Un uomo duro, incattivito, incapace di provare un minimo di amore paterno, un uomo dalla mano pesante che non si faceva alcuno scrupolo nel picchiare la moglie, mandandola addirittura tre volte in coma. 

C'è un'immagine che l'anziano Corona non può dimenticare né perdonare ed è quella della madre riversa sugli scalini di legno della casa, colpita alla testa con il manico di una scure, e salvata solo dall'intervento del piccolo Mauro che si era frapposto tra lei e il padre che aveva ancora la mano alzata per un ultimo, certamente letale, colpo. Il legno dei gradini ha assorbito il sangue della madre e la macchia non è mai scomparsa, invecchiata dagli anni ancora testimonia la follia di quell'uomo, un memento a non dimenticare L’adulto Corona ha delimitato la macchia con la sgorbia, quasi a farne una scultura, a tracciare un recinto sacro da non pestare. La madre, per aver salva la vita, ha dovuto scegliere tra se stessa e i figli e ha deciso di salvarsi fuggendo lontano, abbandonando i suoi tre piccoli (cosa che Corona comunque non le perdonerà mai) per non morire uccisa dall'uomo che l'aveva sposata per amore. Una storia che si ripete, una strage che purtroppo non ha mai fine, nemmeno in questo 2024 che nel mese di gennaio, in Italia, ha visto una donna ammazzata dal proprio compagno ogni due giorni.  

Il libro è proprio dedicato “A quei due”, mamma e papà solo sulla carta, un’espressione che racchiude un misto di disprezzo e affetto, nonostante tutto, rimpianto per ciò che non è mai stato e rancore per ciò che invece hanno causato, nostalgia e rabbia. Tutto questo dolore in Corona ha sortito due effetti, uno buono, l’altro meno: il desiderio e la decisione di comportarsi diversamente da loro e di essere padre dei propri figli e la tentazione di annegare il dolore insanabile della sua esistenza nell’alcol. Un legame, quello con la bottiglia, che lo scrittore confessa al lettore senza nascondersi, senza farsi sconti, consapevole che quel vizio gli ha tolto tanto. 
Non restava che mettersi a bere, obliare nell'alcol il destino di essere venuti al mondo. E così il maggiore, giovanissimo, pose mano alla bottiglia. E non la mollò più (p. 69).
Soltanto la vergogna colta negli occhi dei figli l'ha portato a smettere per un paio di volte, ma lui sa che la bestia è lì, sulle sue spalle, pronta a riprenderselo.
Nel libro i ricordi dell’infanzia, per certi versi serena, grazie alla presenza di tre anziani, nonno, nonna e una zia sordomuta, che si erano presi cura amorevolmente di quei tre piccoli, s'intrecciano per forza di cose alla tragedia che ha segnato, con un prima e un dopo, la vita di quei territori, Erto e Longarone, ossia la frana del Vajont. Dolore che si aggiunge a dolore. Ancora più cupo perché causato dall'uomo stesso, dalla cupidigia, dall'imperizia, dall'ostinazione.
Piovve terra sulla terra, terra nell'acqua, terra su duemila fosse aperte (...) Le case rimaste: fantasmi di pietra, occhiaie vuote, balconi pencolanti. E quel cigolare di porte arrugginite, sotto il vento delle stagioni. Cigola ancora un'altalena, aspetta quei bambini. Attenderà invano. Sono già vecchi. Vecchi, delusi e stanchi. Aspettano l'ora finale, quella ultima del respiro liberatorio. Pace. Finalmente un po' di pace. Dicevano così (p. 17)
Duemila persone, di cui 487 bambini, come sottolineato più volte nel libro, bambini che, di colpo, in una notte di luna piena, smisero di utilizzare le altalene che, da allora, per troppo tempo rimasero a dondolare da sole, abbandonate. Bimbi e bimbe che non diventarono mai ragazzi e ragazze, uomini e donne. Coloro che sopravvissero lo fecero in silenzio, con il peso dei ricordi. 

Il libro diventa poi una sorta di Spoon River: volti di compaesani, amici morti giovani per lo più, che si affacciano dalle fotografie sulle lapidi al cimitero, visi che hanno sorriso probabilmente una volta sola nella vita, per lo scatto della foto. Il cimitero del paese è un luogo che Corona frequenta volentieri perché lì c’è il suo mondo, sotto le spoglie degli amici di un tempo, il Carlo, l’altro Carlo, Silvio, Gianni, Armando e tanti altri di cui il vecchio Corona ricorda le vicende, la vita povera tra lavoro e osterie, poche gioie, tanta fatica.
Il libro si costruisce attraverso una sequenza di frasi brevi, icastiche, frammenti di ricordo che rimandano a memorie incise nel corpo e nella mente. Sono tante le frasi ripetute nel testo, più volte, quasi a dare un ritmo alla narrazione, a riportare il lettore a quegli snodi, a quei grumi di dolore carichi di conseguenze per la vita intera, dalle bestialità del padre alla morte del fratello annegato diciottenne in una piscina di Paderborn, in Germania, dove se n'era andato per sfuggire al terrore familiare.
Quello che, in sintesi, si coglie in quest'ultima prova di Corona è il tentativo di trasformare la memoria in letteratura. Tentativo riuscito? In parte sì, pare anche di intravvedere, un editing minore rispetto ai romanzi nei quali una certa struttura e anche un certo linguaggio sono necessari. E ne capisco la ragione. Questo è uno scritto assolutamente personale dove qualsiasi intervento potrebbe risultare invadente.
Ne risulta un libro non semplice da leggere perché ha la capacità di avviluppare il lettore in una vischiosa e densa lava nera di tristezza e dolore, è difficile non rimanerne angosciati perché è l’incontro narrativo di un uomo con i propri demoni, con le ferite che si porta dentro da bambino e che da anziano tornano ancora a bruciare. È l’incontro con il luogo più intimo di un'anima e, a volte, il lettore si sente di troppo.

Sabrina Miglio