Il richiamo delle origini: un bellissimo classico della letteratura inglese dell’Ottocento da recuperare. "La brughiera" di Thomas Hardy

 


La brughiera
di Thomas Hardy
Garzanti, 31 dicembre 2008

Traduzione di Ada Prospero
Con una Introduzione di Attilio Bertolucci

pp. 448
€ 14,00 (cartaceo)

In un sabato pomeriggio di novembre stava calando il crepuscolo, e l’ampia distesa di terreno aperto e selvaggio nota col nome di brughiera di Eldon si veniva facendo ogni momento più scura. […] La linea d’incontro tra il cielo velato a questo diffuso scialbo chiarore e la terra resa scurissima dalla vegetazione era nettamente segnata all’orizzonte. Il contrato era tale che sulla brughiera sembrava ormai giunta la notte con un anticipo sul tempo astronomico: vi dominava la tenebra, mentre nel cielo ancora indugiava il giorno. Il paesano, intento a tagliare ginestra, guardando in alto sarebbe stato indotto a continuare nel suo lavoro; abbassando gli occhi a terra, avrebbe deciso di far sula sua fascina e tornarsene a casa. I margini lontani della terra e del firmamento sembravano segnare una divisione nel tempo oltre che nella materia. Semplicemente col suo colore, il volto della brughiera aggiungeva un’ora e mezzo alla sera; allo stesso modo poteva far ritardare l’alba, attenuare lo splendore del mezzogiorno, anticipare il cipiglio di temporali che raramente scoppiavano, e rendere più intensamente opaca una profonda notte senza luna, facendone una causa di sbigottito terrore. (p. 7)
Che si possa essere d’accordo o meno sul titolo che in Italia le diverse case editrici hanno dato al sesto romanzo (settimo, se l’autore non avesse distrutto il primo, che non fu, quindi, mai pubblicato) dell’inossidabile scrittore vittoriano Thomas Hardy, non si può certo dire che la brughiera sia un elemento secondario nella trama e dell’economia simbolica dell’opera, apparsa nel 1878 col titolo The return of the Native. Come spiega Bertolucci nell’Introduzione, la traduzione letterale in italiano sarebbe parsa poco gradevole (p. X) e non avrebbe reso al meglio la portata della presenza della brughiera di Egdon nella storia. Al di là di questa scelta, La brughiera è un bel romanzo, uno dei più belli e suggestivi della letteratura europea dell’Ottocento, sia per la storia coinvolgente che per lo stile sontuoso. È stato il primo libro che ho letto del grande autore e ho deciso di tornarci dopo anni e dopo la lettura di romanzi suoi forse più famosi, come Tess dei D’Urberville, Jude l’Oscuro, Via dalla pazza folla, e altri minori, ma non per questo meno meritevoli, come Nel bosco, Estremi rimedi, e lo stupendo Il sindaco di Casterbridge, che, per tanti aspetti, mi ricorda il verghiano “ciclo dei vinti”.
Alla luce di queste letture posso confermare che la natura ha sempre occupato un posto fondamentale nell’intera opera hardiana, a maggior ragione ne La brughiera.

LA NATURA IN PRIMO PIANO, TRA DISSOLVENZE E MESSE A FUOCO

Sono impareggiabili e indimenticabili, almeno nella narrativa europea di quel secolo così fecondo di opere d’arte, le meravigliose descrizioni di angoli di boschi e di brughiera, come nell’incipit riportato all’inizio di questo articolo; si tratta di passi estremamente suggestivi che spesso strizzano l’occhio ad atmosfere notturne e gotiche tanto care al nostro scrittore, ex architetto sì, ma anche poeta. Luogo d’elezione per l’ambientazione delle sue opere è una immaginaria contea del Wessex, facilmente individuabile nel Dorset, patria di Hardy, regione sudorientale della Gran Bretagna, famosa per i paesaggi incontaminati, le coste a picco sul mare, i suggestivi borghi con le case tipiche e le antiche rovine romane: sono tutti elementi che fanno capolino nelle diverse pagine dell’autore e non solo in questo romanzo.
La penna di Hardy è fluida, evocativa e colta, mai pomposa o insistita: numerosi i richiami ad autori del passato letterario inglese e i loro aneddoti, citazioni bibliche e riferimenti ai grandi capolavori della letteratura di ogni tempo, come la Commedia di Dante! Descrivendo le usanze degli abitanti di quel piccolo villaggio nei pressi della brughiera che la notte del 5 novembre accendono falò con diversi ceppi e sterpaglie, Hardy immagina le anime e il paesaggio oscuro e terribile dell’Inferno:
Il nero paesaggio assomigliava allora al Limbo come doveva averlo visto dal ciglio della montagna, nella sua visione, il genio fiorentino, e gli articolati mormorii del vento nelle piccole valli facevano pensare ai lamenti e alle suppliche degli «spiriti magni» colà sospesi. (p. 21)

Le suggestioni delle fiamme che tremolano e danzano sui volti dei villici in festa attorno al loro falò richiamano i giochi di chiaroscuro di certe opere d’arte, con un dinamismo cromatico eccezionale, che porta cose e persone all’estremo:

I baleni di chiarore e le grevi ombre che s’alternavano, in vivo contrasto, sui volti e sugli abiti delle persone attorno al fuoco, davano ai loro lineamenti e alle loro figure l’aggressivo vigore d’un quadro di Dürer. Ma era impossibile scoprire l’espressione costante di ciascun volto, ché, mentre le agili fiamme si levavano, s’inchinavano e si dissolvevano nell’aria circostante, le chiazze d’ombra e di luce sui volti mutavano continuamente forma e posizione. (pp. 21-22)

Com’è noto a chi ama la narrativa hardiana, - bisogna precisarlo - la natura non è mai consolatoria per l’uomo, non è un rifugio bucolico, ma è spettatrice impassibile della fragilità dell’essere umano. La penna di Hardy sa di antica saggezza, ma è in fondo realistica e pessimista e rimane onesta e franca sulle reali condizioni dell’umanità, senza fare sconti.


ALCUNI  PERSONAGGI ENTRANO IN SCENA: IL MATRIMONIO RIMANDATO

I personaggi, come sempre, appartengono al mondo degli umili, che ruotano attorno alla brughiera o ai boschi: tagliatori di legna, contadini, fabbricanti di scope, venditori d’ocra, raccoglitori di ginestra. Essi non vengono subito rivelati dallo scrittore, che preferisce invece concentrarsi dapprima su qualche tratto particolare del loro abbigliamento o accennando qualche dettaglio del loro aspetto fisico e solo più avanti nelle pagine, darà al lettore la possibilità di conoscere fin nell’intimo i protagonisti.
Dopo una messa a fuoco sulla brughiera di Egdon, la storia comincia e il primo personaggio che il lettore incontrerà “camminando” tra le pagine è un vecchio viandante, che viene descritto con pochi tratti: sembrerebbe un ex ufficiale di marina. L’anziano incontra sulla sua strada un giovane uomo immerso nei propri pensieri, tutto tinto di rosso, che avrebbe fatto galoppare a spron battuto dallo spavento tutti gli sprovveduti ignoranti dell’esistenza dell’ocra. I due personaggi sono l’ex capitano Vye, ormai in pensione, e il venditore d’ocra Diggory Venn. Nel carrozzone il giovane nasconde una fanciulla addormentata in mezzo ai tormenti, Thomasin Yeobright: la ragazza avrebbe dovuto sposare quella mattina l’ex ingegnere adesso loncandiere della “Osteria della Buona donna”, Wildeve, ma, per un disguido logistico dovuto all’irregolarità della licenza di lui, non era stato possibile celebrare le nozze. Thomasin, in preda alla vergogna e all’angoscia, per evitare pettegolezzi sulla sua onorabilità, aveva deciso di tornare a casa, dalla zia, senza il promesso sposo, nascondendosi nel carrozzone di Diggory, suo fidato amico, nonché… suo ex spasimante. In mezzo ai falò, questi punti di luce sull’immenso abisso della brughiera di notte, si svolgono le prime vicende che animano la comunità di Egdon: assistiamo ai discorsi davanti al fuoco del rubizzo Nonno Cantle, che narra gli eventi della sua giovinezza, scopriamo la credulità ottusa di suo figlio Christian che aveva «gli occhi da lepre impaurita» (p. 34), le battute di Fairway. Sono momenti di godibilità narrativa straordinaria, che alleggeriscono l’ombra minacciosa della brughiera con cui si è fatto subito conoscenza, interessanti anche perché permettono di conoscere le superstizioni dei contadini di quel tempo e di quel luogo, i loro modi di vivere e i loro saggi proverbi, ma soprattutto, all’interno dell’architettura del romanzo, fungono da occasioni per presentare alcuni personaggi fondamentali.


EUSTACIA, SOLINGA SACERDOTESSA DELLA NOTTE

Il personaggio più interessante e assolutamente indimenticabile di questo romanzo è Eustacia Vye, figlia dell’ex capitano, fanciulla di bellezza singolare, istruita, ammaliante e languida sognatrice, che agogna una vita fatta di feste, di mondanità e di stimoli culturali, praticamente inesistenti lì nella selvatica Egdon. Magistrale il percorso che intraprende Hardy per presentarla ai lettori: semina dei brevi cenni, tratti dai discorsi degli abitanti del villaggio davanti al fuoco, a una figura femminile solitaria, istruita, ma un po’ stramba, che qualcuno crede addirittura una strega. Il lettore, trovando questi e altri indizi tra le pagine, si incuriosisce sempre più; comunque, anche quando finalmente si approda al capitoletto in cui la fanciulla entra in scena (Regina della notte, p. 73), Hardy non la descrive subito, ma preferisce suggerire la sua bellezza attraverso dettagli minimi: le labbra incomparabili (p. 62), una guancia bianca illuminata da un raggio di luna, una ciocca di capelli neri corvini, un passo esitante nella brughiera. Eustacia sfida le convenzioni e vive ai margini di quella comunità che disprezza e non lo nasconde, non teme di passeggiare da sola in quel buio abissale e gelido della brughiera di notte. 
C’era in Eustacia Vye la stoffa d’una dea. Con un minimo di preparazione, si sarebbe trovata benissimo sull’Olimpo. Aveva le passioni e gli istinti che rendono perfetta una dea, quelli cioè che fanno d’una donna il contrario della perfezione. […] Aveva la persona piena e un po’ pesante; il volto non troppo colorito né pallido, e dolce al tocco come una nube. Guardando i suoi capelli, veniva fatto di pensare che l’inverno intero non contenesse tenebra sufficiente a uguagliarne l’ombra; le ricadevano sulla fronte come il tramonto che vela lo splendore dell’occidente. (p. 73)

Come le dee dell’Olimpo, anche Eustacia è capricciosa, soprattutto in amore. Ex innamorata di Wildeve prima che lui decidesse di sposare la dolce Thomasin Yeobright, era solita accendere un grande falò davanti casa sua per richiamarlo. Agli occhi di lei però la stella dell’uomo viene però subito eclissata da un nuovo sogno d’amore che riaccende quel suo cuore tempestoso di speranza: torna alla brughiera Clym, cugino di Thomasin. 


IL RITORNO DEL NATIVO

Nel volto di Clym Yeobright si poteva vagamente scorgere l’espressione tipica del futuro. Se avremo in avvenire un periodo d’arte classica, i suoi Fidia riprodurranno volti come il suo. La visione della vita, come d’una cosa a cui bisogna rassegnarsi, - sostituitasi al gusto di vivere, così intenso nelle civiltà primitive - finirà col permeare di sé così totalmente la struttura delle razze più progredite, che il riflesso di questa visione sul volto umano dovrà essere accettato come nuovo punto di partenza per l’arte. […] (p. 181)

Eccoci al vero protagonista, su cui l’autore ha sapientemente caricato le aspettative del lettore, attraverso le vicende e i discorsi degli altri personaggi. Clym entrerà attivamente nella storia quasi a metà libro e l’autore dedicherà alla sua descrizione caratteriale e morale quasi due capitoli. Il lettore, prima di conoscerlo, sa già che è un giovane avvenente, ex pretendente di sua cugina, molto più intelligente e istruito degli altri. Soprattutto, più della romantica figura di Wildeve, ingegnere fallito, rappresenta un uomo che si è riscattato da quel mondo abietto e selvaggio, perché lavora a Parigi in mezzo ai diamanti. Per Eustacia Clym è un’occasione da non perdere per lasciare la brughiera una volta e per sempre, tuttavia l’uomo, a differenza di lei, ama la brughiera, se ne sente parte ed è tornato per restarci.

Nessuno meglio di Clym conosceva la brughiera. Era permeato dai suoi aspetti, dalla sua sostanza, dai suoi odori. Si sarebbe potuto dire che ne era il prodotto. Là i suoi occhi si erano aperti alla luce; ai suoi aspetti erano legate le prima immagini di cui aveva ricordo; ne era stata colorata la sua visione della vita; i suoi balocchi erano stati i coltelli di pietra e le teste di freccia che vi trovava […]; i fiori da lui amati erano i campanelli i violacei dell’erica e la ginestra gialla; gli animali suoi amici, le serpi, i cavallini; suoi compagni, gli abitanti della brughiera. (pp. 187-188)

Clym è una creatura della brughiera, senza aspirazioni di grandezza che possano portarlo lontano da lì. Disgustato dall’ipocrisia dei lustrini parigini e da una vita fatta di mollezze e corruzione, desidera tornare accanto a sua madre e a sua cugina nella speranza di sentirsi utile al prossimo, come un novello Giovanni Battista (p. 186).


LA BRUGHIERA TRADISCE CHI LA DISPREZZA

Nonostante la sinossi del libro dica qualcosa in più sulla trama, in questo mio invito alla lettura preferisco non aggiungere altri succosi particolari. Eustacia è una fanciulla bella che ha in sé le caratteristiche della femme fatale e dell’eroina tragica come altri personaggi femminili hardiani, tra cui Tess dei D’Urberville dell’omonimo romanzo, sfida le convenzioni, è profondamente indipendente come Bathsheba Everdene di Via dalla pazza folla. Tra gli abitanti della brughiera prima di Clym, solo un uomo era “abbastanza degno di lei”: Wildeve. Gli ostacoli che si frappongono alla conquista di un uomo sono per lei il sale dell’amore e la notizia del matrimonio dell’amato con Thomasin la convincono ad avvicinarsi di nuovo a lui, salvo abbandonarlo quando vede brillare da lontano un uomo nettamente superiore a tutti quelli papabili da amare a Egdon. È molto interessante, anche se marginale, il personaggio di Wildeve, che ho trovato il più dinamico di tutti, forse l’unico. Clym era superiore da tempo, da prima che comparisse sulla scena, ma l’ex ingegnere compie un percorso che lo riscatta agli occhi del lettore: da dongiovanni incallito a innamorato fedele, tormentato tra la passione per Eustacia e i doveri verso la moglie che gli aveva nel frattempo anche dato una splendida bambina, di nome Eustacia!
Anelare alle cose difficili da conquistare e stancarsi di quelle che si hanno facilmente, sognare le cose lontane e sdegnare quelle vicine: era stato sempre il carattere di Wildeve. Ed è il carattere dell’uomo romantico. Anche se il suo ardore sentimentale non si elaborava in forme di vera poesia, era però di quel tipo: lo si sarebbe potuto definire il Rousseau di Egdon. (p. 230)
Tra coppie mal assortite, dispiaceri di un genitore,  aiutanti che arrivano come angeli custodi ad aiutare la fanciulla amata da una vita, la brughiera, protagonista indiscussa di tutto il romanzo, fa però le sue scelte e domina sempre le introduzioni all’aperto dei vari capitoli: solo chi riuscirà ad amarla per la sua natura infernale e selvatica, raramente gaia, troverà il giusto equilibrio nella sua vita e si salverà. La natura insegna che la vita non ha un lieto fine, ma è solo un continuo ciclo di eventi, ora tristi ora lieti: è questa anche la lezione di Thomas Hardy.

Marianna Inserra