«Con i libri che traduco ho un rapporto di cura»: intervista a Monica Pareschi, traduttrice di "Un'estate", il nuovo libro di Claire Keegan

 


Dialogare con Monica Pareschi, traduttrice tra gli altri di Shirley Jackson, Charlotte ed Emily Brönte, Paul Auster, Willa Cather, è spalancare mondi. La passione che dopo trent'anni di mestiere non è venuta meno e la straordinaria competenza emergono chiaramente da questa lunga chiacchierata che mi ha concesso a proposito di Un'estate, una novella del 2010 scritta da Claire Keegan, e da poco in libreria per Einaudi. Arriva in Italia dopo il successo di Piccole cose da nulla, pubblicato da Einaudi sempre nella traduzione di Pareschi, che con la scrittura di Keegan è in totale empatia. Un'estate, intenso e carico di significati, è una sorta di apprendistato all'affetto: una bambina di nove anni viene mandata a trascorrere l'estate alla fattoria di lontani parenti della madre e qui scopre che famiglia significa molte cose, a partire da cura, affetto, gentilezza. Una storia di parole e silenzi, ferite, perdite che hanno lasciato un segno profondo, legami e attenzione all'altro. Dove, ancora una volta, le piccole cose sono tutt'altro che da nulla. 
Un gioiello, che affascina tanto per la trama che una pagina dopo l'altra si dischiude al lettore quanto per l'attenzione di Keegan alla struttura, alla parola, rese con maestria da Pareschi. Una novella, dicevo in apertura, il respiro un poco più ampio del racconto, ma a esso profondamente legata per la postura autoriale e altri dettagli, come vedremo in dialogo con la traduttrice. 
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Partiamo da un’etichetta, le va? Come definirebbe questo testo, Un’estate? Per me è una novella e le dico perché: c’è la questione della brevità della storia naturalmente, ma del racconto ha anche il carattere del frammento, del particolare, l’uso peculiare della storia sommersa.

Keegan come scrittrice ha una misura naturalmente breve – bellissimi i racconti delle due raccolte precedenti al suo debutto nella forma novella – Antartica e Walk the Blue Fields, entrambe pubblicate in Italia ma credo non più in libreria da un pezzo -, in cui sono d’accordo a far rientrare sia Piccole cose da nulla sia Un’estate. Foster (Un’estate) nasce come racconto e viene dapprima pubblicato sul New Yorker, e successivamente rivisto ed “espanso” per arrivare alla forma attuale. Non ho idea se Keegan, sulla scorta di un iniziale successo di critica, abbia avuto pressioni editoriali per passare a una forma più lunga e appetibile per un pubblico più vasto: se è così, l’operazione è sicuramente riuscita. Sta di fatto però che il carattere di tutta la sua scrittura rimane quello del racconto breve, direi addirittura del racconto novecentesco: e dunque l’uso dell’ellissi, una lingua a tratti fortemente concentrata e a tratti scabra, i finali aperti, un’economia di mezzi descrittivi a cui corrispondono immagini particolarmente dense, il richiamo costante a ciò che sta fuori, o sotto la storia e affiora solo a tratti, l’uso ambiguo di elementi simbolici (per esempio le tre luci in una delle scene clou di Un’estate) che sta al lettore, se vuole, riempire di significato.  

Un’estate è una sorta di apprendistato all’affetto, alla comprensione di sé stessi e dell’altro. Questo almeno è quanto da lettrice ho avvertito io, ma lei, la traduttrice di questa storia e quindi la sua lettrice più attenta, che cosa ne pensa?

È vero, possiamo dire che per la bambina questa fase della vita corrisponda a una sorta di alfabetizzazione affettiva, che cura la situazione di incuria a cui è stata sottoposta, per vari motivi, nella famiglia naturale. È anche un incontro felice di anime ferite, che imparano o re-imparano a darsi amore e a prenderselo. E l’amore, praticato o ricevuto, è senz’altro una forma di conoscenza. Senza amore – soprattutto senza quella forma d’amore primario che auspicabilmente si riceve da piccoli, e che è fatto in primo luogo di cura - non c’è crescita.

Di Keegan aveva già tradotto lo scorso Natale il bellissimo Piccole cose da nulla: anche in quel caso una storia di quotidiano, di persone e cose normali (e di una pagina molto oscura della storia irlandese); di sentimenti, di gentilezza e cura. La mia sarà forse una riflessione un po’ banale, ma la semplicità di questi sentimenti e di queste storie sembra colpire in modo particolare in un momento storico e sociale come quello attuale e la risposta tanto accalorata dei lettori pare suggerire che sentiamo l’esigenza di umanità, di certi sentimenti e gesti, di piccole cose che sono tutt’altro che da nulla, non trova?

Non so, per quanto mi riguarda resisterei a una lettura troppo edulcorata (o edulcorante) dei racconti di Keegan. È vero, le sue storie mettono spesso in scena personaggi semplici, non particolarmente istruiti e spesso dotati di “buoni sentimenti”, le vicende spesso si svolgono in un ambiente rurale o di piccole città, e tutto questo crea un forte contrasto con la narrativa irlandese contemporanea, che gode da qualche anno di una grande fortuna editoriale e non solo editoriale – penso in particolare al fenomeno Sally Rooney, con le serie tratte dai suoi romanzi; e poi, sulla scorta del successo di Rooney, alla pletora di giovani scrittori e soprattutto scrittrici irlandesi portati in Italia da case editrici come Atlantide, Keller, la stessa Einaudi. Keegan ha un passo più classico – mi verrebbe da dire anche più letterario – rispetto a queste scrittrici che indagano soprattutto il disagio giovanile e di coppia in ambienti fortemente urbanizzati e potenzialmente alienanti, molto legate al presente. La accosterei piuttosto alla tradizione irlandese del Novecento, a scrittori canonici come Edna O’Brien, John Mc Gahern, lo stesso Joyce – che aleggia, inequivocabilmente, in certe presenze epifaniche e citazioni sottotraccia, come la scena in cui cade la neve in Piccole cose da nulla, un chiaro rimando a The Dead.

Tuttavia quelli trattati da Keegan sono temi forti: in Piccole cose da nulla la cupa e terribile vicenda delle Madeleine Laundries, vere e proprie istituzioni delinquenziali in cui, sotto la copertura della Chiesa, si è consumato uno dei capitoli più vergognosi della storia irlandese. In questo caso il protagonista è chiamato a una scelta morale, che compie non senza ripensamenti e difficoltà, ma va detto che, pur nell’apparente semplicità di sentimenti, Bill Furlong è un personaggio emotivamente complesso e sfaccettato, con tutte le ambivalenze del caso. E anche in Foster, il fatto che alla bambina sia concessa un’esperienza di cura e di amore che presumibilmente farà di lei un individuo più ricco e completo, non annulla le deprivazioni e la crudezza della sua vita precedente e forse di quella futura, così come i Kinsella non saranno curati della perdita irrimediabile che hanno subito. Non c’è un trionfo finale del bene, solo la constatazione che sono avvenuti fatti terribili, e poi altri fatti che li hanno, forse e in parte, compensati, senza annullarli: c’è l’esperienza umana, che è fatta di questo avvicendarsi, e in cui il lettore può riconoscersi. Di qui, credo, il grande successo dell’autrice. Di fatto, non sappiamo come sarà la vita della bambina senza nome di Un’estate dal momento in cui la lascia il racconto, né cosa ne sarà dei Kinsella, di Bill Furlong e della ragazza che ha “salvato”. Quello che sappiamo è che hanno provato, tutti, a essere più felici, più giusti: hanno provato a salvarsi.

Il titolo originale dell’opera è “Foster”, verbo inglese che significa sia “allevare” che “adottare” e “incoraggiare”: è tutto qui, in questa parola, il senso profondo di questa storia di cura non trova.

Credo di aver già risposto, in parte. La cura implicita nel titolo inglese, la presa in carico del più debole e piccolo da parte del più forte, è il gesto d’amore primario e imprescindibile per lo sviluppo emotivo, cognitivo e fisico dell’individuo. Non tutti gli individui la ricevono: perlopiù sappiamo che l’amore genitoriale è qualcosa di lacunoso e imperfetto, di qui le nevrosi, le mancanze, i buchi, le ferite più o meno sanabili che ci accompagnano nell’età adulta. Qui assistiamo a una di quelle esperienze di riparazione che, se pure non cureranno dell’abbandono primario, auspicabilmente forniranno il materiale su cui ricostruire il sé danneggiato. A loro volta i Kinsella, nel curare e dare amore, soddisfano un loro bisogno primario, prendersi cura e riparare, in modo vicario, il lutto subito. È la storia di ogni adozione. Ma ovviamente questo è un racconto, non un trattato di psicologia: non ci sono tesi, né garanzie. Si tratta di una storia, il lettore osserva, assiste alla storia, e ne fa ciò che vuole. È proprio questa, in fondo, la funzione del racconto: ciascuno la storia se la racconterà a modo suo. Ciascuno si curerà a modo suo.

Parliamo della scrittura di Keegan e, quindi, del lavoro di traduzione: qual è stato il suo approccio al testo? È riuscita a rendere perfettamente la semplicità e la meraviglia della bambina, punto di vista e narratrice della storia, le pennellate espressive di Keegan che crea il quotidiano, gli oggetti che lo compongono, i guizzi lirici della natura e dei sentimenti che via via si vanno scoprendo:

Amo molto le narrazioni filtrate attraverso l’occhio infantile. C’è, automaticamente, uno sguardo più puro, spassionato, spesso anche più duro e crudele. Sì, i bambini hanno uno sguardo crudele, perché non educato dal perbenismo delle convenzioni. È come se attraverso la percezione infantile emergesse una verità letteraria più forte, più libera dai limiti della prosa – visto che stiamo parlando di prosa – in qualche modo caratterizzata dai salti logici e dagli accostamenti liberi della poesia. Una qualità che apprezzo nella scrittura di Keegan è la capacità di stare nel lirismo di certe descrizioni utilizzando elementi prosaici, quasi pedestri: per esempio, in Foster, la descrizione dei cavi dell’alta tensione come scarabocchio sulle nuvole disegnate col gesso.
In certi punti il cielo è sgombro, azzurro. In altri è come se qualcuno ci avesse disegnato le nuvole col gesso, ma perlopiù è un miscuglio furibondo di cielo e alberi tutto scarabocchiato dai cavi dell’alta tensione, dove sfrecciano, di tanto in tanto, piccoli stormi di uccelli bruni che un attimo dopo spariscono. (p. 5)

E altri brani dello stesso tenore. Lo fa senza sbavature dolciastre, e questo la rende molto lontana da certe narrazioni dozzinali mainstream, ma anche dalla totale assenza di lirismo di molte narrazioni contemporanee. Così come non ha paura dei buoni sentimenti, Keegan non ha paura di descrivere la natura nella sua meraviglia. È – anche - una scrittrice degli spazi aperti, della luce, del cielo, dell’acqua e dei campi. E ci vuole un bel coraggio, e una bella perizia, per essere convincenti negli anni Venti del duemila.

Una nota finale: come traduttrice è riuscita come pochi altri in Italia a creare un rapporto particolare con i lettori, di fiducia e rispetto. E la Monica Pareschi lettrice che tipo di rapporto ha con i libri?

Siccome sono una persona decisamente solitaria nella vita vera, compenso con un po’ di vita social. Devo dire che dopo trent’anni e passa di traduzioni amo ancora molto il mio lavoro, e ne scrivo sporadicamente su Facebook, o mi capita di parlarne in interviste come questa, o a qualche festival e convegno. Forse questo mi ha guadagnato una certa simpatia e un certo interesse da parte dei lettori, non so. Se serve a creare consapevolezza intorno al fatto traduttivo, ne sono ben felice. È una cosa genuina e poco mediata, e credo che chi mi legge lo senta. Che senta l’entusiasmo, anche, che c’è ogniqualvolta mi trovo davanti, con stupore, a una scrittura superiore. Mi succede regolarmente traducendo i classici, ma non solo. A volte pubblico un piccolo stralcio di qualcosa a cui sto lavorando e che mi stupisce, che mi provoca un brivido estetico, per così dire. O persino che mi commuove (penso, ultimamente, a certe descrizioni di Thomas Hardy…). Con i libri che traduco, amandoli, sicuramente ho, per tornare al concetto di prima, un rapporto di cura. Però non di abnegazione e scomparsa. Non sono una madre o una tata invisibile, una vestale al servizio dell’Autore o del Testo. Non sono a servizio e non offro traduzioni di servizio. Sono una traduttrice abbastanza autoriale, se vogliamo. Il che non vuol dire che piego i testi al mio gusto e ai miei scopi, ma certo utilizzo – e non potrebbe essere altrimenti – il mio bagaglio culturale, estetico, emotivo, esperienziale per tradurli. Tendo a fidarmi del mio orecchio, a questo punto, a volte più che dei caratteri scritti in nero sulla pagina. Ma è un discorso che ci porterebbe molto lontano.
Con i libri che non traduco, che leggo per me, cerco di avere un rapporto più immediato, ma mi accorgo quasi sempre che non ne sono capace. Traducendo per professione, ho assaggiato il frutto della conoscenza letteraria, per così dire, e tendo ad accorgermi non tanto di essere nuda quanto a vedere il testo nella sua nudità. Il che non vuol dire non goderne, ma è un godimento forse meno ingenuo e felice. Da giovanissima invece sì che ero una lettrice davvero felice. Niente mi ridarà quell’abbandono gioioso al testo, quelle interminabili estati di lettura avida, disordinata. Ero instancabile. E le sensazioni che mi dava allora la lettura me le ricordo tutte, quasi fisicamente. Quello che ho letto prima dei vent’anni starà con me per sempre.


Intervista a cura di Debora Lambruschini. Ringraziamo di cuore Monica Pareschi e la casa editrice Einaudi per la disponibilità.