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Un memoir che procede attraverso i "corpi mobili" dei ricordi: la vita in Cambogia raccontata da Jane Sautière

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Corpi mobili
di Jane Sautière
La Nuova Frontiera, gennaio 2024

Traduzione dal francese di Silvia Turato

pp. 128
€ 16,90 (cartaceo)

Vedo l'ombra - inafferrabile - di quei corpi mobili, sempre nascosti, sempre presenti. Un altro disturbo dell'età. Mi pare chiaro. La mia età diventa quella dei corpi mobili che hanno abitato la mia esistenza e che dimorano presenti e irreali. (p. 8)

È una Jane Sautière ormai anziana quella che decide di raccogliere le memorie della sua vita in Cambogia tra il luglio 1967 e il luglio 1970: lo farà liberamente, «come bestie all'inseguimento di impronte» (p. 9), tra lacune dovute alle dimenticanze dell'età e fantasmi del passato, che torneranno attraverso i racconti di altri. 

Questa libertà nel rievocare gli eventi secondo le memorie residuali che tornano alla mente appare chiara fin dal principio: l'opera procede per frammenti, alcuni giustapposti per vicinanza tematica, altri invece  allontanati gli uni dagli altri dallo spazio bianco di un nuovo capitolo per segnare uno spostamento del pensiero o una pausa di riflessione. Dentro ogni singolo paragrafo, è poi la paratassi a farla da padrona, ma quel che potrebbe sembrare sintatticamente fin troppo essenziale si arricchisce di un lessico esatto e di un notevole livello metaforico, alternato a enumerazioni che vivacizzano l'immaginario del lettore attraverso dettagli di grande forza. Eccone un esempio: 

«È quella la città che ho amato, l'immobilità, l'istupidimento dell'afa, il silenzio, l'attraversavo come in un film al rallentatore, un ago deciso in una stoffa pesante e bagnata di sudore. Phnom Penh così bella nel suo sonno di bestia» (p. 44)

L'effetto è quello di una prosa calibrata e trasparente, che talvolta si fa insolitamente lirica, talaltra brutale nella sua concretezza. Una prosa che non si nasconde dietro la subordinazione, perché vuole incidere urgentemente sulla pagina bianca i ricordi, prima che il tempo li cancelli. 

E mi è parso necessario rilevare anzitutto lo stile, perché questo è una marca fondamentale del libro, senza la quale il memoir non apparirebbe altrettanto efficace. Si avvicendano parti maggiormente autobiografiche e storico-sociali ad altre sentenziose («Il tempo fa la sua parte, ma il luogo molto di più. È sempre quest'ultimo a venire a mancare di più», pp. 86-87) o metaletterarie («Accettare questa approssimazione e quindi l'ineluttabile fallimento della scrittura. Chiedersi come catturare l'intensità delle cose scomparse», p. 116). E la voce narrante è così ben riconoscibile e ferma che può tenere unite materie tra di loro lontane.

Per quanto riguarda il racconto autobiografico, Jane Sautière vive in Cambogia gli anni del liceo, cruciali nella crescita di chiunque per la scoperta del proprio corpo, per la costruzione della propria identità e per i primi incontri con l'amore e il sesso. Per l'io narrante è ancor più intenso e per certi versi straniante vivere queste tappe da apolide, sapendo di essere destinata a sradicarsi nuovamente, come già era accaduto in passato per il lavoro di spionaggio del padre. Infatti, a Jane è richiesto di imparare a conoscere la lingua e la cultura del posto dove abita, prima ancora di vivere la propria adolescenza. E ci sono scoperte che rendono Phnom Penh una città indimenticabile, altre che invece fanno male, come la patina di discriminazione razziale sempre presente o l'immobilismo delle gerarchie sociali che rende difficoltoso smuoversi dalla posizione in cui si nasce. La natura e la città meritano entrambe grande attenzione, e Sautière punta a registrare singoli episodi personali; solo di rado annota i cambiamenti avvenuti nel tempo, constatati di persona o appresi da racconti altrui. Lo fa soprattutto quando scrive della guerra, vista in parte dal vivo, in parte raccontata e scoperta a distanza; in questi frammenti traspare sempre con grande angoscia la violenza messa in campo dai soldati. 

La stessa vita famigliare viene registrata con trasparenza: dalla scoperta bruciante di aver perso un fratellino di sette mesi e una sorella di dodici anni alla presa di coscienza del lavoro del padre o del carattere inflessibile di sua madre. Anche la propria vita sentimentale viene raccontata in breve: anziché concentrarsi solo su di sé, Jane Sautière sembra più interessata ad annotare tutto ciò che si intreccia alla grande Storia, facendosi anzitutto testimonianza. Consiglio ai lettori di riprendere le prime pagine alla fine della lettura, perché risulteranno ancora più programmatiche: illumineranno ancor meglio la scrittura di Jane Sautière e l'obiettivo con cui ha steso il memoir. 

GMGhioni