di Michael Cunningham
La nave di Teseo, gennaio 2023
Traduzione di Carlo Prosperi
pp. 320
€ 22 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Dieci anni dopo il magistrale Le ore – che gli valse premio Pulitzer, apprezzamenti da parte di critica e pubblico e una riuscita trasposizione cinematografica – Michael Cunningham torna alla fiction, con Day, da oggi in libreria per La Nave di Teseo nella traduzione di Carlo Prosperi. Le ore è un romanzo monumentale, stratificato, in cui si intrecciano echi letterari e una prosa che tocca vette altissime. Inevitabile il confronto con il suo capolavoro, di cui un’eco, minima e fuggevole, si avverte nella struttura del romanzo e nei rimandi letterari; probabilmente è fare un torto all’autore cercare il paragone con un testo tanto amato e in buona misura perfetto. Eppure. È difficile scindere le due cose, ora che Cunningham è tornato al romanzo, in un confronto da cui il romanzo più recente non risulterà pienamente riuscito.
Day non è di per sé un romanzo mediocre, ma è arduo rintracciare nei giri di frase, nella costruzione dei personaggi, nei dialoghi, le indiscusse capacità letterarie di uno scrittore del suo calibro, come capire in quale misura ciò sia anche imputabile alle scelte redazionali della versione italiana, dato l'entusiasmo generale della critica internazionale che proprio sull'eleganza della prosa sembra fare leva.
Forse dovremmo fare tabula rasa di tutto quello che c’è stato prima, dei rimandi e degli spunti, per giudicare più oggettivamente questo romanzo, ma allora dove si collocherebbe la critica letteraria? Come possiamo ragionare su un testo se non lo inseriamo in un discorso letterario e culturale più ampio, tanto nella produzione del suo autore quanto nel contesto entro cui si presenta?
Lascio volutamente queste domande aperte, perché credo sia importante oggi confrontarci su questo, una stessa prassi che di qui a poco giudicherò come un difetto, quando i punti di domanda nel romanzo di Cunningham si fanno a mio avviso sovrabbondanti.
Va detto che una certa severità nel mio giudizio è dovuta anche al fatto di quanto si pretende da un fuoriclasse, cui difficilmente perdoniamo una performance meno che perfetta. Se Day non fosse un romanzo di Michael Cunningham, il giudizio sarebbe più clemente? L’ho rifatto, ho lasciato un’altra domanda in sospeso, ma questa volta ci tengo a dare la mia risposta: no, non cambierebbe, non per me almeno. E la stessa questione possiamo guardarla anche da un punto di vista opposto, giungendo per quel che mi riguarda alla medesima conclusione: ci spertichiamo in critiche positive quando si tratta di un autore ben noto e la maggior parte delle recensioni sembrano allinearsi a una comune acclamazione? Anche in questo caso, appunto, per me la risposta è no.
Day è un romanzo con del potenziale ma che non convince del tutto, in cui la scrittura Cunningham appare meno puntuale, immaginifica, letteraria e ispirata rispetto alla sua opera più celebrata e certe debolezze narrative e strutturali non possono essere ignorate. Ma è anche un romanzo nel quale qui e là si aprono squarci di straordinaria bellezza. Non è possibile – e francamente nemmeno penso che serva – darne un giudizio in bianco o nero, ma accettare le virtù e i limiti di un’opera che è anche strettamente ancorata al contemporaneo, con i rischi e il valore che questo comporta.
Cunningham fotografa tre momenti – mattina, pomeriggio e sera – della stessa giornata, il 5 aprile, in tre anni diversi: la mattina del 5 aprile 2019, il pomeriggio del 2020 e la sera del 2021: prima, durante e dopo la pandemia che ha sconvolto il mondo intero. Impossibile scrivere un romanzo contemporaneo ignorando uno degli eventi più devastanti e complessi che abbiano colpito l’umanità, pure se è ancora rischioso per la vicinanza storica, per l’impatto emotivo e, perché no, perfino con il pericolo che, dato l’evento narrato, tra vent’anni un romanzo come questo possa risultare datato. Ma oggi, nel 2024, ambientare una storia tra 2019 e 2021 significa per forza fare i conti con la pandemia, che sia un dettaglio sullo sfondo o una presenza più concreta nell’organicità della trama, così come è necessario per un romanziere arredare la stanza di tutto ciò che rende riconoscibile il contesto entro il quale i suoi personaggi si muovono. E allora ci saranno lezioni su Zoom, messaggi Whatsapp, sirene che squarciano il silenzio irreale, domesticità e poi una nuova percezione dello spazio esterno.
Cunningham sceglie quindi di ambientare la sua storia entro questi confini, con una struttura tripartita che è un po’ la sua cifra stilistica insieme al gusto per i riferimenti letterari - mai didascalici, va detto - che attraversano la narrazione. Tre anni, quindi, tre momenti di una giornata e, in certa misura, tre sono anche i nuclei affettivi e i componenti di cui di volta in volta l’autore indaga le complessità delle relazioni. Dan e Isabel, marito e moglie, Robbie, il fratello minore di lei. Violet e Nathan, i loro figli, e, ancora, lo zio Robbie. Garth (il fratello artista di Dan), Chess e Odin, il bambino che hanno avuto insieme. Vite che non si dispiegano completamente nello spazio narrativo costruito da Cunningham, ma di cui l’autore fotografa un frammento, quasi che fossero racconti tesi al massimo del campo d’azione preposto, nel tentativo di indagare le pieghe dei sentimenti e delle relazioni, gli angoli bui, le frustrazioni e le difficoltà ma anche la meraviglia, il coraggio di essere sé stessi o almeno provarci.
I frammenti e la narrazione compressa nell’arco di una giornata – seppur amplificata lungo tre anni – portano intrinseca l’eco di Joyce e della narrativa modernista, in un gioco di rimandi e citazioni letterarie che, per quanto qui siano meno abbondanti, restano comunque una risonanza che si intreccia abilmente alla storia, priva di didascalismi o sterile citazionismo. Sono i testi su cui gli studenti di Chess si confrontano-scontrano – e a tal proposito, vogliamo parlare della spregiudicata onestà di considerare nessun testo o autore intoccabile? – o le chiacchiere e i ricordi tra Isabel e Robbie, da La casa della gioia di Edith Wharton a Il grande Gatsby di Fitzgerald; il rimando a Joyce, la rilettura de Il mulino sulla Floss di George Eliot, ultimo appiglio prima di sparire.
Il centro nevralgico di Day e il luogo privilegiato da Cunningham restano le relazioni e una certa idea di famiglia, che per funzionare può ben discostarsi dalla sua immagine più tradizionale. Cunningham insegue le crepe lungo la facciata di un matrimonio in cui l’affetto e la consuetudine si sono sostituiti all’amore. E dove Robbie, il terzo protagonista della loro storia, ne è il testimone più attento ma anche l’anello di congiunzione:
C’è, inoltre, il fatto che Robbie riesce forse ad amarli meglio di quanto loro riescano ad amarsi a vicenda. C’è il fatto che Isabel e Dan sono destinati al naufragio e al dolore dal momento stesso in cui si sono incontrati […]. (p. 50)
A discapito dei segni della fine che Robbie intravede fin dal principio della relazione tra Dan e Isabel, i due costruiscono una casa e una famiglia, in equilibrio precario tra sogni frustrati, distanze, incomprensioni e sentimenti complessi cui è impossibile apporre un’etichetta. Il rapporto con Robbie, soprattutto. Un amore che ha molte forme, profondo, antico, tanto per l’uno quanto per l’altra. Ma che da solo non basta. E nel momento in cui Robbie lascia la stanza-appartamento che occupa al piano superiore, la crepa sulla parete della loro famiglia si fa sempre più profonda, la frattura nel loro matrimonio sembra destinata a decretarne la fine.
La frattura diventa mai irreparabile? Se sì, quando? Come fai, come fa una persona qualsiasi, a sapere quand’è che dal ci stiamo lavorando passi all’è troppo tardi? (p. 197)
Ma che cos’è, in fondo una famiglia? Dan, Isabel, Nathan e Violet lo sono di più e più legittimamente di quanto potevano essere se all’equazione si aggiungeva lo zio Robbie? O rispetto a Chess, che da Garth voleva solo lo sperma per avere il suo bambino ed essere lei e Odin, famiglia? Dove si colloca in quel quadro la figura del padre? Ed è davvero necessario che ne faccia parte?
L’ho fatto ancora, influenzata da quello che Cunningham stesso commette in questo romanzo, l’insistere troppo sui punti di domanda e che in qualche occasione appaiono come uno sviare dallo scavare più a fondo nei suoi personaggi, in quell’intimità complessa nella quale sappiamo sarebbe capace di condurci. La sovrabbondanza di interrogativi, perfino una narrazione meno immaginifica rispetto alle sue eccellenti capacità di prosa sono tuttavia mancanze su cui possibile soprassedere; è un certo grado di artificiosità, tuttavia, il difetto che fatico a perdonargli, perché è quanto di più distante dal narratore che conosco e amo. È nell’idiosincrasia tra la Violet cinquenne e i bambini del mondo reale, in certi dialoghi affettati, nella noncuranza della regola “show, don’t tell” per il fiume inarginabile di pensieri ed elucubrazioni, specie quando troppo distanti dal personaggio.
Poi però, si diceva, la pagina si apre a squarci di assoluta meraviglia:
Nathan pensa ai boschi delle fiabe, dove lupi, demoni o case di marzapane attendevano i bambini che vi si avventuravano. Nelle fiabe, però – quelle che Nathan ricorda – i bambini vincevano sempre. Ne uscivano sani e salvi. Chissà, si chiede, forse le fiabe tralasciavano di parlare dei cambiamenti che questi bambini avevano subito. (p. 302)
In poche righe Cunningham condensa il tormento di un personaggio che solo nella terza parte del romanzo sembra rivelarsi, la crudeltà della colpa, la perdita dell’innocenza. Nathan, quello dei capitoli finali, è la scoperta più bella di questo romanzo e mi ha fatto pensare a quanto potesse essere un racconto a sé stante, con le sue ambiguità, gli spazi vuoti proprio là dove hanno più senso di esistere, le ombre, le epifanie. In lui, nelle scene entro cui si muove, si avverte tutta l’abilità narrativa di un autore da cui giustamente pretendiamo moltissimo, perché moltissimo è quello che sa fare con le parole.
E forse alla fine basta questo, bastano certi attimi e immagini a impedire che tutto scivoli via.
A quest’ora l’East River prende una sottile patina traslucida, una brillante pelle come d’acciaio che sembra fluttuare sul fiume stesso mentre l’acqua passa dal nero notturno al verde scuro opaco del giorno imminente. Le luci del ponte di Brooklyn impallidiscono sullo sfondo del cielo. (incipit, p. 13)
Debora Lambruschini