di Joan Didion
Il Saggiatore, ottobre 2023
Traduzione di Delfina Vezzoli
pp. 240
€ 19 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Non ci sono praticamente mai mezze misure con Joan Didion, la si ama o la si odia. Di certo, in ogni caso, tutti conoscono il nome di quella che è stata – ma in fondo è ancora – una vera e propria celebrity letteraria. Un’icona, non solo dell’ambiente culturale ma anche di stile: quel perfetto caschetto liscio, la figura sottilissima, la Chevrolet, la sigaretta, gli abiti che oggi definiremmo quite luxury. Ed è, soprattutto e quel che ci interessa in questa sede, emblema di uno stile narrativo capace di mescolare abilmente il racconto della società con la propria esperienza personale, il particolare che diviene universale: reportage, non fiction, autofiction, sono le etichette che più identificano la produzione letteraria di Didion e in buona misura sono nate proprio con lei, tra le più importanti voci del New Journalism statunitense del Novecento.
Ma, dicevamo, la si ama o la si odia. Se la si ama, è un sentimento che sfiora l’idolatria, per tutti quegli elementi poc’anzi citati, per quella scrittura curatissima, colta, la tendenza a trasformare ogni esperienza anche minima in simbolo, le epifanie, l’io dominante sulla pagina, il gusto per il citazionismo. La si odia, per le stesse ragioni: per l’ego ingombrante, per la drammatizzazione con cui osserva ogni piccolo dettaglio, per la vicenda personale che invade la narrazione. A volte, semplicemente, penso che la odino perché aveva una voce e a una donna difficilmente si perdona, perché era un’intellettuale ma anche un’icona di stile.
Resta il fatto che, scomparsa nel 2021 a ottantaquattro anni, di Joan Didion ancora leggiamo ogni pagina e anche laddove il mondo che racconta non esiste più resta intatta l’aura che ne aveva saputo cogliere. Ecco, forse una cosa che non le si può perdonare è aver creato il fraintendimento che si poteva scrivere di sé, della propria esperienza personale, e farne arte, farne letteratura universale: lei ci riusciva magnificamente, ma la deriva di autofiction – specie italiana – degli ultimi anni è una piaga che affligge il mondo letterario e dalla quale pare non ci siamo ancora liberati.
Personalmente la amo. Ma la amo di quell’amore adulto, che non è cieco di fronte ai difetti e a qualche pezzo meno riuscito degli altri. L’anno del pensiero magico sarà sempre una delle letture più intense, dolorose e piene di incanto della mia vita – un libro che consiglio spesso, ma solo se ve la sentite di affrontare una buona dose di sofferenza – ma non nutro lo stesso sentimento per The White Album, la seconda raccolta di saggi narrativi pubblicata originariamente nel 1979, in Italia arrivata per la prima volta solo nel 2015 per Il Saggiatore e ora riproposta nella nuova veste grafica di tutte le opere di Didion, sempre nell’ottima traduzione di Delfina Vezzoli. Più esplosiva, acuta e stilisticamente riuscita Verso Betlemme, la prima raccolta di saggi che comprende testi dal 1961 al 1968 e che per me rappresenta l’ingresso ideale nel mondo di Didion, in quella scrittura tesa tra personale e universale e che fotografa perfettamente un’epoca di grandi stravolgimenti. The White Album, pur contenendo alcuni saggi esemplari manca a mio avviso di quella carica innovativa e l’equilibrio tra realtà ed io non è sempre all’altezza della scrittrice. C’è un «eccesso di drammatizzazione» sentenziava Claudio Giunta in un pezzo su Internazionale all’epoca della prima uscita in Italia della raccolta e in quell’io a suo giudizio troppo dominante che trasformava in simbolo ogni più insignificante dettaglio leggeva un’esasperazione dello stile caratteristico di Didion. Il mio giudizio è meno severo, non perché ritenga ci siano autori inattaccabili, tutt’altro, ma perché The White Album pur non essendo la sua prova migliore contiene comunque alcuni articoli davvero notevoli e una varietà interessante di storie raccolte in questo diario-reportage a coprire il periodo 1968-78.
È la fotografia di un’epoca che non c’è più, che per certi versi risente un po’ del tempo intercorso ed è difficile non restare straniti talvolta di fronte alle epifanie, alla ridondanza di simbolismi che Didion pare leggere in ogni più piccolo dettaglio, in una narrazione sulla quale mi è parso l’autrice avesse meno il controllo. Poi, però, si aprono squarci.
Noi ci raccontiamo delle storie per vivere. (incipit, p. 11, introduzione)
E di queste storie, dello scovarle, del farne materia letteraria, reportage, Didion è sempre stata maestra. Testimone privilegiata della sua epoca, in The White Album riesce a raccontare con la stessa lucidità dell’incontro con la first lady Nancy Reagan, delle prove di «una band chiamata The Doors» e del suo frontman che «indossava pantaloni di vinile nero senza mutande», la terribile stagione di omicidi commessi dal gruppo di Charles Manson – e che si sono svolti a poca distanza dalla casa di Didion. Lo fa illuminando un dettaglio, un particolare che alla maggior parte di noi probabilmente sfuggirebbe, che non reputeremmo degno di nota, ma dal quale Didion, invece, fa scaturire la narrazione, costruendovi intorno il suo castello di parole.
È questa peculiare capacità di osservazione e la commistione tra io e universale, vicende personali e società ad essere valso a Didion perfino l’approvazione del critico più severo del New York Times, Michiko Kakutani, e il motivo per cui ancora e ancora la leggiamo, studiamo, la amiamo o detestiamo. Per quelle storie che ci raccontiamo per vivere e che lei abilmente ha saputo intrecciare, parlando ora della questione idrica in California, ora di uno straordinario coltivatore di orchidee, passando per un’intensa stagione di tour letterario insieme alla figlia piccola.
C’è sempre nei reportage di Didion un velo sottile di snobismo, che francamente non giudico negativamente: è un certo distacco, tra me e lei, tra noi lettori e una scrittrice icona, mentre la osserviamo raccontare la crisi del mondo con una bottiglia di Barboun come elemento essenziale nella valigia del giornalista in trasferta, padrona di casa in feste frequentate da Janis Joplin, intenta a scrivere dalla casa a Malibù o dal Royal Hawaiian Hotel di Honolulu dove si trova con la famiglia «invece di sbrigare le pratiche per il divorzio».
È la stessa scrittrice che riflette candidamente sul proprio crollo nervoso – e sempre quella, ricordiamolo ancora, che sarà capace di stracciarci il cuore con il suo racconto del lutto – e sulle terribili emicranie che periodicamente la costringono a letto al buio per giorni, quella che si sforza di trovare un senso al caos del mondo e che può passare abilmente dal racconto di quello stesso caos alla fascinazione per le serre e la coltivazione di straordinarie orchidee.
È una Didion di cui non sempre condividiamo le idee e i giudizi – sul femminismo, per esempio – ma della quale “invidiamo” la presenza al centro della scena, lì dove si sta compiendo la storia, che siano le occupazioni dei campus universitari o la nascita di una rock band leggendaria. Della quale ancora studiamo lo sguardo penetrante sulla realtà che la circonda e che oggi vive in scrittrici come Zadie Smith – con tutte le differenze narrative tra l’una e l’altra – , la naturalezza apparente con cui ha saputo inventarsi questa modalità narrativa mettendo pezzi di sé stessa dentro le pagine che non rimanessero mai sterile autofiction ma che assumessero un valore universale.
E che potessero fungere da bussola, per orientarsi in quel caos che di volta in volta andava vivendo e raccontando, l’io e il mondo. Da quella spiaggia di Honolulu, ancora.
Siamo qui su quest’isola in mezzo al Pacifico invece di sbrigare le pratiche per il divorzio. Non ve lo dico come una rivelazione oziosa, ma perché voglio che, mentre mi leggete, sappiate esattamente chi sono e dove sono e che cosa ho in mente. (p. 138)
Leggere Joan Didion, per me, significa tutto questo. Diceva, come si citava in apertura, che ci raccontiamo storie per vivere; Jón Kalman Stefánsson nel suo romanzo più noto, Paradiso e inferno, metteva in bocca al suo protagonista parole che di nuovo mi risuonano alla fine di questa lunga riflessione sulla scrittura di Didion, su The White Album e su che cosa significhino per noi le storie:
Forse non abbiamo bisogno di parole per sopravvivere, ne abbiamo bisogno per vivere. (Paradiso e inferno, p. 64)
Non credo esistano parole migliori di queste a chiusura.
Debora Lambruschini