La Regina del silenzio
di Marie Nimier
Clichy, gennaio 2024
Traduzione di Fabrizio di Majo
pp. 192
€ 19,50 (cartaceo)
Cercavo di ricordarmi i soprannomi che mio padre usava per rivolgersi a me. Niente di simile, ovviamente. Per lui ero la Regina del silenzio, soprannome così poetico, che però mi lasciava in bocca uno sgradevole gusto di ferro e di sangue. Nella sua mente, che regina potevo mai essere io per lui, che già nei registri di stato civile mi aveva chiamata Marie e Antoinette? Una regina silenziosa, una regina a cui taglieranno la testa... (p. 49)
Immaginate di essere, per vostro padre – un padre famoso, uno scrittore fenomenale, morto in un incidente d’auto troppo giovane – nient’altro che una Regina del Silenzio. Immaginate di scoprire, anni dopo la sua scomparsa, che aveva annunciato la vostra venuta al mondo con queste righe: «Tra l’altro, ieri Nadine ha avuto una bambina. Sono immediatamente andato ad annegarla nella Senna per non sentirne più parlare» (p. 143). Immaginate, infine, di essere voi stessi diventati una scrittrice, e di dovervi confrontare, in pubblico e in privato, con la sua imponente ombra tanto di genitore quanto di autore.
Questa è la posizione da cui Marie Nimier, autrice francese di grande talento e successo, partì per scrivere La Regina del silenzio nel 2004. Il libro, vincitore del Prix Médicis, è stato appena tradotto e pubblicato da Clichy, e non potremmo esserne più entusiasti.
Se a noi la figura di Roger Nimier è forse poco familiare – sono stati tradotti solo pochi dei suoi romanzi, come Le spade (1948) e L’ussaro blu (1950) ma difficilmente si trovano in commercio – non per questo ci arriva con minor intensità l’impatto emotivo di questo libro, a metà tra mémoir e non fiction.
Roger Nimier muore in un incidente d'auto, a bordo della sua Aston Martin, insieme a una delle sue amanti. Sua figlia ha solo cinque anni, e di lui ha ricordi sparsi e frammentari, brandelli di immagini che lo ritraggono a volte depresso, a volte crudele, a volte anche tenero, ma in un modo goffo e difficile da apprezzare. Cresciuta, divenuta scrittrice, in questo libro cerca di ricostruire il ritratto di un padre poco famigliare e che, le sembra, gli altri, gli esterni, conoscevano molto più di lei. Le fonti che utilizzerà sono diverse: libri, carte private e articoli, ma anche testimonianze verbali di chi ha conosciuto Roger Nimier, o almeno una delle molte facce di quest’uomo complesso. Il lettore assiste con tenerezza allo scarto che l’autrice registra tra il Roger Nimier che gli altri – i suoi lettori, le sue amanti, i critici – ricordano e quello che lei ha sperimentato in quanto figlia:
Reclusione è la parola che sceglie. E aggiunge che deve uscirne un altro Nimier. La vita letteraria è molto lunga. Uno scrittore deve morire e resuscitare. Forse Jacques Chardonne si sbagliava? Mio padre è morto e, che io sappia, non è resuscitato. (p. 48)
O ancora:
Qualcuno se ne serve e io, in treno, seduta ben dritta davanti al computer, guardo le foto del ponte di Celle-Saint-Cloud, quelle dell’ospedale di Garches e quelle della sfilata dei salumieri di Rambervillers, come se navigando da una foto all’altra potessi ritrovare il volto di quell’uomo che un giorno, tanto tempo fa, ho chiamato papà. (pp. 21-22)
Ciò che Nimier può contrapporre alla visione collettiva è un’immagine sfaccettata e spesso poco gratificante di suo padre, nella quale si alternano la sensazione di una lunga assenza e il ricordo delle violenze domestiche perpetuate su se stesso e sulla sua famiglia: gli scatti d’ira, le aggressioni alla madre, alla casa, le ricadute nella depressione e i tentativi di suicidio. Questi episodi vengono evocati a sprazzi, e la penna di Nimier – o forse proprio la sua memoria – esita nel rievocare il lato oscuro e incomprensibile di suo padre. Sebbene il lettore possa empatizzare con il vissuto dell’autrice, nel suo racconto non c’è traccia di pietismo, scartato in quanto inutile tanto all’elaborazione privata quanto alla qualità letteraria dell’opera.
C’è invece una prosa eccezionale, forse l’ingrediente decisivo nel trasformare un buon libro in uno ottimo, che non si dimentica facilmente.
«Capita che le fate che si chinano sulle nostre culle abbiano talvolta un atteggiamento poco cortese» (p. 137), scrive Nimier, e ci lascia col fiato a metà di fronte alla semplicità ed efficacia di una simile frase. Tuttavia a questa tensione quasi poetica della sua espressione narrativa se ne alterna un’altra, non priva di sperimentazioni linguistiche, che rendono ancora più incisivo il discorso su un padre, le sue assenze, la sua grandiosità mancata.
Concludiamo così, come abbiamo aperto, con un estratto da questo libro che ci ha tanto conquistati, nella convinzione che presto farà lo stesso con voi:
Fanno venire le lacrime agli occhi, delle frasi così. Un giorno, virgola, andrò con mio fratello a mettere dei fiori sulla tomba. No, bisognerebbe dirla diversamente. Un giorno, virgola, andrò con Martin sulla tomba di nostro padre. La tomba di Roger Nimier. Un giorno, virgola, andremo, mio fratello e io, un giorno, virgola, ma quando lascio dei messaggi sulla sua segreteria telefonica non mi richiama mai, allora non è che uno si secca, ma dai e ridai, hai l’impressione di disturbare. E allora, ovviamente, non disturbi più. Te lo tieni per te. Le visite al cimitero che si affaccia sul mare, gli alberi, le pietre tombali come lettini, e i ricordi dolorosi del papà. (p. 13)
Michela La Grotteria