Dare la vita
di Michela Murgia
a cura di Alessandro Giammei
Rizzoli, gennaio 2024
pp. 128
€ 15 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
«C'è un brano, risalente ai primi anni della mia vita di scrittrice, che mi torna davanti agli occhi a ognuno dei miei molti traslochi, di casa e di computer. Si tratta di poche pagine in cui ho scritto, come fossi me stessa e un'altra allo stesso tempo: "Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me". Ho formulato quella frase quindici anni fa e ancora oggi non so se nei lustri che sono trascorsi quella ragazza (che forse sono io) ha capito del tutto in cosa consistesse la sua vocazione. Ma credo che essere madre, scegliermi dei figli che mi hanno scelta - e che poi sono diventati fratelli, mentori, allievi, complici, in certi casi addirittura paterni nei miei confronti, destabilizzando persino la mia idea iniziale di filiazione d'anima - mi abbia fatto capire alcune cose, o almeno interrogarle fecondamente.» (p. 11)
Tra la primavera e l'estate del 2023 i giornali sono stati invasi da articoli che cercavano di rispondere a una domanda: cosa significa queer? L'invasione è stata davvero significativa, ma il punto cruciale non sempre stava nella domanda.
La maggior parte degli articoli non era nemmeno in cerca di una vera risposta; si era più a caccia di clic che somigliavano a rumor, di chiacchiere curiose sulla vita di una famosa e discussa scrittrice che quel termine - pronunciato la prima volta nel 1895 nel processo contro Oscar Wilde - lo aveva riportato all'attenzione pubblica mettendolo al centro di nuova condivisione e dibattito: Michela Murgia. Improvvisamente era nato il bisogno collettivo di sondare come funzionasse il meccanismo familiare di Murgia, questo nucleo queer in cui l'elezione amorosa viene prima del ruolo, in cui si fa un uso alternativo delle parole per creare nuove forme di inclusione, le dinamiche di possesso sono azzerate e l'amore moltiplicato. E di questa cosa sembrava molti non si capacitassero: ci sono gabbie in cui stare, a questo mondo, e la famiglia queer in questo perimetro sembra non trovare posto.Michela Murgia è morta, nell'agosto 2023, raccontando e scrivendo a gran voce cosa significasse abitare nuovi spazi di relazione. Si è spesa fino all'ultimo spiegando che la legittimazione di un unico modello familiare - da secoli idealizzato e romanticizzato - induce ancora molte, troppe, persone a pensare che ci siano famiglie "normali" e altre che non lo sono.
Si è impegnata nel condividere un esempio tra i mille possibili di storie e affetti che si basano sulla responsabilità e sui sentimenti, in cui si dà la vita ad altri come madri in modo diverso dalla classica gestazione. Dare la vita, il nuovo libro della scrittrice, a cura di Alessandro Giammei, è l'ideale proseguimento di questo impegno.
Il volume nasce dall'unione di due grandi riflessioni: quella sulla GPA (gestazione per altri), e quella sulla famiglia, strettamente connessa anche ad alcuni degli ultimi contenuti social postati da Murgia. A integrazione, altre riflessioni e racconti che arrivano dal passato della scrittrice (alcuni di natura autobiografica), in quello che in certi passi sembra proprio un ritorno all'origine con nuova e matura consapevolezza.
Murgia mette qui a fuoco i temi essenziali dell'intervento pubblico e politico degli ultimi mesi della sua vita, alcuni affrontati letterariamente anche nella raccolta di racconti Tre ciotole.
C'è il dibattito sull'insufficienza delle politiche di maternità in Italia, la riflessione sulla non sovrapponibilità di maternità e gravidanza - ancora confuse con facilità da molti -, la critica al patriarcato come «sistema di poteri patogeno dove le persone sono ruoli inamovibili, le relazioni dispositivi di comando, i corpi demanio pubblico e i legami familiari meccanismi di deresponsabilizzazione». C'è la domanda ricorrente e profonda su cosa significhi essere madri e quali sono i tipi di madri che la nostra società merita; ritroviamo anche l'utilizzo allargato dei termini "sposa/sposu" che, ricollegandosi all'antico significato sardo, non hanno nulla a che fare né con il fidanzamento né con il matrimonio ma più con la scelta libera dell'altro nella piena responsabilità affettiva. Qualcosa di molto diverso dall'"esserti fedele sempre".
Murgia era una scrittrice politica (cosa che piaceva a molti e dispiaceva ad altrettanti) perché parlava di tessuti sociali e relazioni. Ed è innegabile che nelle nostre relazioni ci siano ancora qui pro quo identitari rilevanti. La maternità a cui si riferisce il titolo è raccontata nel suo non poter essere detta: un paradosso emotivo che fa ancora sentire mancanti molte persone.
Dare la vita, come succede per quasi tutti i libri postumi, non può essere un libro "completo".
Non lo è nel senso che nella sua frammentazione risiedono tanti elementi di frattura: il tempo della malattia che ha affrettato quello della scrittura, il dubbio e il bisogno di interrogarsi ancora, la limitatezza dell'esperienza di fronte alla molteplicità dei rapporti. Da queste crepe entra una voce che invita noi a continuare, più che a completare. Lo scrive in modo chiaro Murgia:
«Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, coltivate il dubbio per sognare orizzonti anche più ambiziosi di quelli che riesco a immaginare io. La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti».
Claudia Consoli