È uno sport nazionale: sospettare di tutti, spiare e denunciare. Li addestrano a farlo fin dall'infanzia. Cominciano già alla scuola elementare con l'ora di "purificazione", un momento di autocritica durante il quale i bambini dovrebbero confessare atti e pensieri impuri commessi contro il partito, nonché riferire le malefatte di amici e vicini, che sono tenuti a osservare attentamente. (p. 150)
Meglio prepararsi, prima di leggere Le otto vite di una centenaria senza nome, perché Mirinae Lee nel suo romanzo non risparmia, attraverso la sua protagonista, pensieri amari sulla Corea del Nord, sul Giappone e sulla Storia. L'escamotage narrativo è presto detto: l'impiegata di una casa di riposo decide di dare più dignità agli ospiti facendo scegliere loro tre parole che fungano da necrologio, al momento della loro morte. Un'occasione per parlare di sé e per sfuggire almeno temporaneamente all'inesorabile cancellazione del tempo. Quando però è il turno della signora Mook, la donna, quasi centenaria, sostiene che tre parole siano troppo poche e ne vuole otto, ma ne pronuncia solo sette: «Schiava. Artista della fuga. Assassina. Terrorista. Spia. Amante. E madre» (p. 28).
Benché la donna sia ricoverata nel reparto di chi è malato di Alzheimer, l'impiegata non ha dubbi: per ognuna di quelle etichette c'è una storia degna di essere raccontata, trascritta e così ricordata. E la signora Mook non racconterà le vite in ordine cronologico, ma come preferisce: eccola dunque raccontare le brutture che ha vissuto al confine nordcoreano nel 1961, durante la guerra; quindi tornare alla sua infanzia, nel 1938, quando pone fine almeno per anni al vizio di mangiare la terra; tornare alla disperazione della guerra di Corea, focalizzandosi in particolare sul periodo vissuto in una "stazione di conforto" vicino a Semarang, in Indonesia, vicino a una base militare giapponese. Qui la protagonista e tante altre giovanissime, spesso ancora bambine, venivano stuprate dai soldati; e queste sono pagine particolarmente dure, in cui però si stabiliscono rapporti di sorellanza strettissimi, rinsaldati dal bisogno di ricordare le proprie vite passate. Salvarsi da lì, tornare a vivere e reintegrarsi nella società costituiscono altre tappe che meritano pagine e racconti di grande intensità:
[...] prima di scomparire, il suo corpo non conosceva uomo. Poi, però, ne ha conosciuti a migliaia. La guerra glieli ha fatti conoscere con la forza. Come farà il suo corpo a fingersi ignaro? Come farà a disimparare quello che ha dovuto imparare per anni? Una cosa la rassicura: il suo corpo non sa come si fa l'amore. (p. 141)
Come la protagonista è costretta dalle circostanze a cambiare più volte nome, così la sua identità è mossa, sconvolta dalla Storia, ma un'incredibile forza d'animo le permette di continuare a vivere, cogliendo come le circostanze possano volgere a proprio favore. Anche se questo significa mentire a chi si ama, fingersi chi non si è, farsi addirittura spia e riuscire a vendere le informazioni ottenute in cambio della propria salvezza.
Poi, certo, ci sono elementi che nel corso della narrazione ci faranno chiedere: la signora Mook (o chi per lei) è veramente una narratrice affidabile? Eppure la forza dei suoi racconti è tale da mettere in secondo piano questo interrogativo e richiederci invece una totale attenzione sul dipanarsi degli eventi, cronologicamente sghembi, tutti da ricostruire, sapendo che resteranno anni di silenzio su cui non ci sarà possibile dire nulla.
Ispirato spesso a eventi realmente accaduti, Mirinae Lee mette in scena la storia, porta testimonianze romanzate che scuotono qualsiasi lettore e lascia un tocco di mistero attorno alla figura di questa centenaria senza nome o con troppi nomi, che ha saputo sopravvivere a tante crudeltà, anche grazie a momenti di solidarietà e salvezza giunti all'improvviso.
GMGhioni