“Mille soffi di vita, mille battiti di un speranza tenace e segreta”. Nelle foreste per trarne, con Romain Gary, una "Educazione europea"

 




Educazione europea
di Romain Gary
BEAT, 2020

Traduzione di Mario Nardi

pp. 271
€ 12,50 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)

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«All’alba la buca era scavata». Così inizia, nettissimo, il romanzo d’esordio di Romain Gary, Educazione europea. La buca è il rifugio sotterraneo in cui Janek, ultimo figlio ancora in vita del dottor Twardowsky, deve aspettare nascosto la sconfitta dei tedeschi. Notizie che paiono echi fantastici arrivano dalla battaglia di Stalingrado e fanno sperare in un rovesciamento delle sorti del conflitto («“C’è una battaglia sul Volga. […] Migliaia di uomini si battono per noi”. “Per noi?” “Sì. Per te, per me, per milioni di altri uomini”», p. 10). Janek è giovane, legge racconti dei pellirossa e ha ancora una sottile paura del buio e della solitudine. Si fida del padre quando lo invita all’attesa fiduciosa. Poco distante dalla foresta, però, la divisione Das Reich delle SS sta ricorrendo a una «astuzia tattica» più volte sperimentata: rapire le donne del borgo per «unire l’utile al dilettevole» (p. 14), spingendo i partigiani, folli di rabbia e di gelosia, a lanciarsi in difesa delle loro madri o mogli, figlie e sorelle, venendo così facilmente sgominati: 

questo piano aveva dato buoni risultati ovunque, ma con i polacchi, che avevano un senso dell’onore maschile particolarmente suscettibile, era per così dire infallibile. (p. 14)

 Anche il dottor Twardowsky, che partigiano non è, ma polacco sì, cade nel tentativo di difendere la virtù della moglie. Si apre così, per il figlio, rimasto solo, davanti a sé le ceneri fumanti del suo villaggio bruciato, la stagione dura di una crescita forzata, necessaria.

Voleva tornare sottoterra, radicarsi dentro la sua buca, non uscirne più. Scese nella tana, si buttò sul giaciglio. Non era stanco. Non aveva paura. Non aveva sete, né sonno, né fame. Non sentiva niente, non pensava. Se ne stava disteso sulla schiena, lo sguardo vuoto, nel freddo, nelle tenebre. Soltanto, a notte inoltrata, pensò che stava morendo. Non sapeva come si muore. Certo, un uomo muore quando è pronto per morire; ed è pronto quando si sente troppo infelice. Oppure un uomo muore quando non gli resta nient’altro da fare. È la strada che l’uomo prende quando non ha proprio più dove andare.
Ma Janek non morì. Il cuore batteva, batteva sempre. Morire non era più facile che vivere. (p. 20)

Janek è un Pin più ingenuo, cui non interessa sembrare adulto a tutti i costi. Riesce a vedere l’essenza delle persone, pur senza comprenderla appieno; parla il linguaggio della foresta, carezza la corteccia degli alberi per trarne forza; si commuove di fronte alla bellezza e alla musica, senza saper spiegare perché; si convince che dietro al misterioso ed eroico Nadejda, comandante inafferrabile dei partigiani, uomo dalle grandi imprese e l’identità sconosciuta, si nasconda in realtà suo padre, di cui nessuno vuole mai parlargli; si innamora di Zosia, che va con i tedeschi per carpire informazioni, ma mantiene l’anima pulita, un po’ come lui.

Eppure, anche se le atmosfere sono velate e suggestive e il protagonista appare una creatura fuori dal tempo (soprattutto dal suo tempo), anche se spesso i partigiani davanti al fuoco si concedono al piacere del racconto condiviso, non c’è nulla di realmente fiabesco nell’opera. La morte può cogliere chiunque in qualunque momento, non c’è innocente che possa salvarsi in virtù della sua forza morale, e i malvagi non sempre pagano. La stessa differenza tra buoni e cattivi si fa confusa, a tratti permeabile. È così possibile che un anziano tedesco si affezioni a un giovane partigiano, riconoscendo in lui un’affinità segreta; oppure che un piccolo violinista ebreo venga sfruttato per la sua capacità di creare musica nella foresta, senza che nessuno si curi della sua sofferenza («Janek non si stancava mai di ascoltarlo. Lasciava il ragazzo estenuarsi tra la neve, implacabile e avido come un ladro frettoloso di riempirsi le tasche prima che sia troppo tardi», pp. 168-169). La foresta insegna, tra le altre cose, l’importanza di definire delle priorità, e la Resistenza ha le sue leggi, che non sono quelle della vita in tempo di pace.

C’è, va detto, in alcuni punti uno slancio lirico, idealistico, che trova però senso nel contesto in cui l’opera è stata prodotta: durante la seconda guerra mondiale, in un momento in cui l’ideale era necessario, in cui serviva una retorica da opporre a quella dominante. Portatore di questo messaggio è un gruppo di studenti partigiani, guidati da Adam Dobranski, che prende in simpatia il giovane Janek e lo invita a passare una serata con loro, ad ascoltare canzoni e condividere storie che ricordino a ciascuno i motivi per cui vale la pena combattere, forse morire («Gli uomini si raccontano delle belle storie e poi si fanno ammazzare per esse. […] Libertà, dignità, fraternità… l’onore di essere uomini.», p. 67). Se restare in vita è difficile, lo è ancora di più non perdere questa fede nell’uomo, in un’Europa diversa e pacificata, in cui gli individui si possano guardare davvero, senza lasciare che le etichette e le ideologie vengano prima delle persone. È la disperazione, quando «si avvicina troppo e gli penetra dentro», che rende un uomo «un tedesco, anche se è un patriota polacco» (p. 70). Contro questa disperazione che snatura e abbrutisce, Dobranski sta scrivendo il suo libro, che vuole intitolare Educazione europea, affinché rappresenti un modello differente, un rifugio per la speranza, e con essa per tutto ciò che c’è di bello nell’umano.

Ci sono momenti nella storia, momenti come quello che stiamo vivendo, in cui tutto quel che impedisce all’uomo di abbandonarsi alla disperazione, tutto ciò che gli permette di avere una fede e continuare a vivere, ha bisogno di un nascondiglio, di un rifugio. Talvolta questo rifugio è solo una canzone, una poesia, una musica, un libro. Vorrei che il mio libro fosse uno di questi rifugi e che aprendolo, alla fine della guerra, gli uomini ritrovassero intatti i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie, non hanno potuto costringerci a disperare. Non esiste un'arte disperata: la disperazione è solo una mancanza di talento. (p. 70)

Frammenti di storie attinte dal libro vengono inframezzati alle imprese dei partigiani polacchi. Sono queste, così come il mito sempre più elaborato del fantomatico (e fantasmatico) Nadejda, a tenere alto l’umore degli uomini, ad accenderne il coraggio. I tedeschi si rendono presto conto che è contro queste narrazioni che è necessario schierarsi, prima che contro i militanti nemici. Che solo uccidendo o eradicando le leggende, gli ideali, si può indebolire la Resistenza. Solo spezzando l’unione tra gli uomini, impedendo momenti di comunione come quello che unisce i partigiani nella notte di Natale del 1942, solo involgarendo o negando la bellezza, la musica, l’arte, si potrebbe vincere davvero. Perché i singoli uomini possono morire, ma se sussiste l’idea anche la causa resiste. E così, oltre e al di là dei caduti, nei boschi la Resistenza vive.

Il ragazzo ebreo i cui genitori erano stati massacrati in un ghetto riabilitava il mondo e gli uomini, riabilitava Dio. Suonava. […]
«Ancora», mormorava Janek.
Il piccolo continuava. E alla fine Janek ebbe paura, paura della morte. Una pallottola tedesca, il freddo, la fame, e lui sarebbe scomparso senza aver prima abbeverato l’anima al Graal umano, creato nella peste e nell’odio, nei massacri e nel disprezzo, […] il lavoro impareggiabile di queste formiche umane che hanno saputo, in pochi anni di vita miserabile, creare bellezza per millenni. (pp. 165-166)

Romain Gary, a giochi ancora aperti, indaga ideologie diverse, ne saggia la tenuta morale: tedeschi e polacchi, borghesi e contadini, ribelli e collaborazionisti, padri e figli… alcune pagine del romanzo non possono non richiamare, alla mente del lettore italico, Il sentiero dei nidi di ragno calviniano, scritto di lì a poco, ma in queste pagine le posizioni appaiono meno nette, il quadro dell’umano ancora più complesso. Gary utilizza una scrittura ricca, descrittiva e anaforica, con cui vengono delineati ambienti e tratteggiati personaggi, sempre in un’ottica di affondo, di profondità. Una scrittura duttile, aggettivata, in cui pure non è mai una parola di troppo. Gary non esita, se serve, a ricorrere a un linguaggio connotato, talvolta brutale, per restituire la durezza incisiva della guerra o della vita partigiana, ritratta senza volontà celebrative, nella sua miseria quotidiana. Oppure, al contrario, quando necessario, al lessico del pensiero, dell’ideale, che si innalza e fa di un’opera molte opere.

Educazione europea è il volume da scegliere quando si cerca nuovo slancio alla lettura, quando si è stanchi della contemporaneità e si vuole sprofondare in una storia che ha lo spessore del classico e il ritmo del moderno.

Si tratta di un romanzo storico, ma anche (soprattutto) di formazione – Janek infatti cresce e comprende le verità che prima gli erano precluse, compresa quella sul partigiano Nadejda, o sulla morte del padre. La crescita porta con sé però, insieme alla consapevolezza, anche un’amarezza nuova. L’uomo si trova del resto sempre in bilico – incerta l’interpretazione su quale sia effettivamente l’“educazione europea”, se quella delle armi, della violenza, dell’ingiustizia, o piuttosto quella dell’amore, della pace, della fratellanza tra i popoli. E se pure la risposta sembrerebbe essere chiara, un omaggio alla disillusione esistenziale (troppo dura è la scuola dei boschi, per i partigiani che vi patiscono il gelo invernale, gli attacchi a sorpresa, la fame che divora, l’angoscia del domani), Gary tiene aperta la strada a chi voglia invece preferire una risposta diversa, opporre l’arte, il movimento, la vita, all’immobilità di una storia che non fa che replicare se stessa, senza diversioni e quindi senza reale speranza.

Fragilità e forza, miseria e nobiltà, insensatezza e determinazione, tutto questo convive in quella creatura tenace e ostinata che è l’uomo. E se l’apprendimento è labile, se i popoli sono riluttanti a imparare da ciò che è stato, non viene meno la dignità di un percorso in cui a ciascuno è sempre e comunque offerta una possibilità di scelta. E così, in mezzo a tutti gli spunti, e a tutte le possibili chiavi di lettura, io decido di considerare Educazione europea, in fin dei conti, soprattutto un romanzo sulla parola, la parola che consola, la parola che illumina e salva e consola.

“Nelle foreste la speranza umana, più debole del sole d’inverno, rifiutava di morire” (p. 112)

Carolina Pernigo