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Mondi e ferite lontani dagli occhi: "La ragazza invisibile" di Torey Hayden

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La ragazza invisibile
di Torey Hayden
Corbaccio, 2022

pp. 306
€ 18,60 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Titolo originale: The Invisible Girl. The True Story of un Unheard Voice

Traduzione di Lucia Corradini Caspani

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Con il suo ultimo romanzo, La ragazza invisibile, Torey Hayden torna a raccontare di un caso di cui si è personalmente occupata, una storia vera, come chiarisce il titolo originale. Rispetto al precedente Una bambina perduta, la paziente non è una bambina, ma un’adolescente, segnata da una storia di abusi e abbandono all’interno della famiglia, e poi da una sequela di affidi non andati a buon fine.

L’impatto con Eloise è per Torey piuttosto brusco: la ragazza si presenta infatti a lei senza preavviso o appuntamento, interrompendo una seduta di gruppo e raccontando una storia confusa e poco plausibile. L’incapacità di comprendere e accettare i limiti è, del resto, uno dei tratti caratteristici della giovane, e non solo all’interno del rapporto terapeutico. Meleri, l’assistente sociale che ha seguito la sua vicenda, riferisce a Torey che Eloise ha dovuto lasciare l’ultima famiglia affidataria per l’attenzione ossessiva che riservava alla figlia maggiore, Heddwen, da cui continua a tornare anche dopo l’allontanamento, con modalità tali da configurare lo scenario di un vero e proprio fenomeno di stalking. Torey viene quindi incaricata di seguire la ragazza per cercare di aiutarla grazie agli strumenti e le tecniche della terapia comportamentale. Purtroppo, però, le risorse che il sistema assistenziale mette a sua disposizione per il percorso terapeutico sono limitate e si scontrano con le resistenze di Eloise, che tende a mettersi sulla difensiva appena qualcuno intuisce uno scampolo della sua verità:

“Io sono soltanto un caso, per te. Una diagnosi, caselle da spuntare e un maledetto fascicolo, tutto qui. Non mi vedi nemmeno. Credi di vedermi, ma non ci riesci. La verità è che io sono invisibile per te come per chiunque altro.” (p. 112)

Nella maggior parte delle occasioni di confronto, la ragazza si rivela oppositiva: tanto è disposta a chiacchierare di argomenti poco rilevanti, tanto si chiude appena si prova ad entrare nel vivo del suo vissuto, o a suggerirle attività che potrebbero aiutarla ad aprirsi.

Torey, con la sensibilità che contraddistingue il suo sguardo, non ci mette molto a rendersi conto che la giovane si porta una ferita dentro che non è osservabile clinicamente, ma che continua a far male, a produrre effetti negativi sulla sua percezione del mondo, sul suo sentire. Il mondo di fantasie in cui si dibatte, o la misteriosa Olivia che continua ad apparire nei suoi discorsi – alternativamente amica, consolatrice, creatura fragile da accudire –, si configurano presto come una strategia che Eloise utilizza per proteggersi da un mondo esterno che percepisce violento, ostile. Il suo bisogno di cura, di affetto, ricerca nell’immaginazione quel che le è stato negato nella realtà. Torey, che è stata una ragazzina con una vita interiore ricchissima e che proprio da questo ha tratto forza e linfa per diventare scrittrice, non può fare a meno di identificarsi con la sua paziente e utilizza, con un mezzo terapeutico non proprio ortodosso, la propria esperienza personale per cercare un contatto con Eloise:

“La gente ha strane idee sui mondi immaginari. Ti fanno sentire come se tu avessi qualcosa che non va perché hai nella mente persone che loro non possono conoscere, ma io penso che vada bene così. Purché ci si ricordi che c’è differenza tra quello che abbiamo nella mente e quello che c’è fuori. Purché non ci si aspetti che gli altri si adeguino a quello che abbiamo creato. Il mio mondo immaginario mi ha aiutato a sopravvivere in un periodo molto difficile della mia vita, e non posso che ringraziarlo per questo. Facciamo quello che abbiamo bisogno di fare per non soccombere.” (p. 153)

Nonostante il distacco dalle procedure standard, che porta ad alcuni inciampi su cui la psicologa non cessa di interrogarsi in un’ottica di autoanalisi, proprio questa identificazione finisce per offrire a Eloise una chiave di lettura per comprendere ciò che le succede e che a volte sembra prevalere anche sulla sua volontà.

Si ripropone, in quest’ultimo romanzo, la ripetizione di una struttura tipica delle opere di Hayden: l’incontro col paziente, la presa in carico, la ricerca di strategie mirate in un confronto con le altre parti coinvolte, un lento percorso verso una qualche forma di risoluzione e congedo, uno sguardo sul futuro. Rispetto ad altri scritti procedenti, però, in questo l’autrice mette maggiormente in campo il proprio vissuto, i propri trascorsi personali. Se ciò da un lato genera maggiore coinvolgimento, dall’altro rischia di dare l’impressione di un minor controllo della terapeuta su ciò che accade, così come sui progressi di Eloise, creando un effetto di spiazzamento.

Non vengono meno, tuttavia, alcuni spunti di riflessione su aspetti fondanti per ogni educatore: l’importanza di sospendere il giudizio e di non proiettare sull’altro i propri schemi mentali e le proprie aspettative; di saper guardare e ascoltare chi ci sta di fronte, tanto per quello che dice quanto per quello che non dice; di ammettere la possibilità che una relazione educativa abbia degli alti e bassi, dei momenti di stallo, e che spesso le esigenze e i desideri delle due parti non coincidano, costringendo a cambiare metodi e strategie per adattarsi alle circostanze specifiche; la necessità, anche, a un certo punto, di lasciar andare. 

Carolina Pernigo