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Enrigue racconta l'incontro epocale tra Montezuma e Cortés rispondendo alla domanda: "E se le cose fossero andate diversamente?"

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Il sogno
di Alvaro Enrigue
Feltrinelli, gennaio 2024

Traduzione di Pino Cacucci

pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 11,90 (e-book)


Quante volte abbiamo letto un pezzo di Storia e ci siamo chiesti: "E se le cose fossero andate in un'altra maniera?". Ecco, questa è la domanda a cui risponde Alvaro Enrigue con Il sogno, un testo che vuole essere riscrittura dissacrante e anche vagamente ribelle - tutta giocata sui toni del black humour e degli sfottò - di quell'evento epocale che è stato lo scontro tra gli spagnoli conquistadores e le popolazioni indigene dell'America del Sud (in questo caso specifico, del Messico azteco di Montezuma).

L'intero libro racconta ciò che accade in una sola giornata, l'8 novembre 1519: la storia (e le testimonianze arrivate fino a noi, credibili o meno) ci insegna che proprio quel giorno l'imperatore Montezuma e Hernán Cortés si incontrarono a Tenochtitlan, capitale dell'impero azteco e attuale Città del Messico. Senza tirarla troppo per le lunghe, la città fu rasa al suolo nel 1521 dagli spagnoli e dalle macerie della civiltà india nacque un nuovo mondo. Di fatto, a voler riassumere, il mondo azteco è capitolato per aver commesso l'errore di credere gli uomini spagnoli reincarnazioni delle proprie divinità e aver aperto la strada al massacro.

Enrigue decide che questa versione della Storia non è di suo gradimento: attraverso un enorme lavoro di ricerca linguistica, storica, di usi e costumi, in ogni campo d'interesse culturale - dalle pietanze all'architettura, dalle cerimonie religiose alla moda, dalla flora e la fauna di un tempo all'uso smodato di sostanze allucinogene - l'autore ricostruisce un universo perduto che riesce ancora oggi a essere irresistibile
Pensava, mentre rispondeva cortesemente agli inchini delle poche dame e dei funzionari che percorrevano silenziosamente i corridoi - tutti troppo giovani, tutti suoi parenti di vario grado -, che Moctezuma o si stava rammollendo o aveva deciso di toglierlo dal gioco - e il gioco era il più rischioso in cui avessero scommesso entrambi in tutte le loro vite. Aveva Tlaxcala sul collo, Texcoco alle spalle, mezzo impero in rivolta, un principe scomparso e quattro signori nemici e la loro scorta chissà dove in città. Se negli anni precedenti avessero dovuto affrontare soltanto una qualsiasi di quelle calamità, durante la notte ci sarebbero state epura-zioni, avrebbero risuonato i tamburi di guerra, le torce dei templi sarebbero state accese. Mentre adesso non succedeva niente, o quantomeno il tlatoani si comportava come se non stesse succedendo niente perché l'unica cosa che sembrava importargli era impossessarsi a qualunque costo dei cahuayo [...] (p. 80)
La scena è questa: Cortés e il suo esercito arrivano nell'impero azteco, officiati con tutte le onoranze, però Montezuma (Moctezuma nel testo, perché l'autore rende i nomi in lingua nahua, la lingua originaria del popolo azteco) rappresentato come un sovrano volubile, geniale, imprevedibile, colto da gravi episodi di melancolia, sembra interessato solo a una cosa: i loro cavalli. Gli aztechi non li hanno e lui li vuole. Intuisce che sui loro dorsi si può costruire un impero ancora più grande.  

La narrazione prevede diversi punti di vista, dunque l'autore gioca anche con più prospettive: seguiamo l'imperatore nei suoi viaggi allucinatori indotti da funghi e cactus magici (elemento importantissimo nel testo, specie nel finale); seguiamo sua moglie e sorella nelle trame di corte; seguiamo i conquistadores, affascinati da quel mondo estraneo, assurdo, di cui non capiscono nulla e da cui cercano di uscire vivi.
Tutta la narrazione, come dicevo, si svolge in una sola giornata, dalla mattina alla sera di quell'8 novembre: in poco più di ventiquattro ore, Enrigue si trasporta nella fascinazione di un popolo scomparso, tra sacrifici umani, cioccolata da bere, palazzi labirintici, mercati coloratissimi e templi che sembrano costruiti dagli dei. Impossibile non rimanere totalmente conquistati, l'autore ha il grande pregio di proiettare nella mente del lettore immagini vivide, quasi tangibili.

Senza anticipare il modo in cui Enrigue ha riscritto la storia, i conflitti presenti sono vari: l'erede al trono che non si trova da nessuna parte, i litigi tra imperatore e imperatrice, i propositi di vendetta degli schiavi assoggettati a Cortés - dipinto come uno stolto, un debole, nonostante il merito di essere arrivato fino ai piedi di Montezuma - le contraddizioni di un luogo perfetto come un orologio eppure intriso di pratiche disumane (disumane ai nostri occhi) e sanguinose.

Il "sogno" che fa riferimento al titolo ha un triplice aspetto: fa riferimento al quello di Montezuma di possedere i cahuayo spagnoli? O a quello di Cortés di entrare nel mito? O ancora è quello dell'autore, di cancellare un pezzo di Storia crudele per crearne un altro, più giusto forse, più legittimo? Si fa un po' di fatica a entrare nel flusso dei nomi in lingua, ma una volta presa confidenza con quelli, la lettura scorre velocissima: c'è una sorta di perverso piacere nel vedere la Storia prendere quella strada al bivio e non l'altra, perché sappiamo tutti quali orrori abbiano compiuto gli spagnoli in quelle terre. Lo stile è elegante ma anche (dove serve) triviale, fa ridere e riflettere.
Ne consiglio la lettura a gli appassionati dei popoli maya e aztechi e a chi ama particolarmente le riscritture storiche che non si avvalgono di un tono accademico e noioso, ma di una certa ironia tagliente.

Deborah D'Addetta