Bompiani, 2024
pp. 190
€ 16.00 (cartaceo)
«Alla fine della guerra ci sono gli orfani
dei morti e ci sono i figli dei vivi. E poi ci sono gli orfani dei vivi.» (p.
9). Gli “orfani dei vivi” sono i figli
del peccato, o della violenza. Nati in tempo di guerra da donne rimaste
sole, spesso violate da uomini di passaggio, non sono riconosciuti dai padri
biologici, né tantomeno dai mariti legittimi rientrati dal fronte. Prova
evidente di qualcosa che non avrebbe dovuto avvenire, segno di un disonore, di
un’onta da cancellare, questi bambini e queste bambine vengono respinti,
abbandonati. A occuparsene è, per un periodo, in un numero limitato di casi, l’Istituto per i figli della guerra di
Portogruaro. Inizia così, incisivo e diretto, il nuovo romanzo ad
ambientazione storica di Chiara Carminati, pluripremiata autrice di libri per
ragazzi. Si intitola Nella tua pelle,
ma bisogna aspettare quasi fino alla fine per comprendere il significato di
queste parole nell’economia narrativa.
Con
una scrittura piana e a tratti poetica,
Carminati ci trasporta al cuore della provincia
veneta, all’inizio degli anni Venti del Novecento. Accuditi da suore
amorevoli o intransigenti, ma sempre premurose, sotto l’ombra benevola di
Monsignore, i piccoli crescono all’interno dell’Istituto e lì scoprono una forma seppur inconsueta di famiglia,
l’esperienza di fratelli e sorelle, la possibilità di trovare – a tempo debito –
nuovi genitori che li accolgano. Le madri che li hanno affidati all’Istituto
hanno dovuto firmare una dichiarazione con cui rinunciavano a ogni diritto
genitoriale. Se ne sono andate con una ricevuta e un numero identificativo del
bambino che hanno lasciato.
Le
loro storie, i loro sentimenti, da quel momento sono ignoti. Le storie dei loro figli, invece, per
certi versi sono simili: devono fare i conti con l’abbandono, trovare una
propria via, scoprire chi sono senza poter contare sulla solidità delle radici.
All’Istituto Filippo Neri si incrociano i passi e i destini di tre “figli della guerra”: Giovanna,
Vittorio e Caterina. Amici, fratelli, all’interno delle mura del convitto. Poi
ricordo indelebile, quando le strade si separano. Giovanna viene infatti
adottata dagli anaffettivi coniugi Maseron. La moglie chiede di essere chiamata
“Signora Madre”, non mamma, e non accetta per la nuova arrivata un nome plebeo:
sarà dunque, da quel momento in poi e in sfregio al passato, Lucrezia. Al
contempo, però, i nuovi genitori daranno alla ragazza un’educazione, gli agi di
una vita benestante, e soprattutto la
musica, che diventa per lei energia, vita, forma di evasione – soprattutto
quando conoscerà, per caso, il jazz appena arrivato dall’America, rocambolescamente,
anche nelle campagne italiane. Vittorio invece ha una sorte diversa: a
differenza degli altri ragazzi del convitto, lui è stato intensamente voluto e
amato. La madre l’ha lasciato a malincuore, e mai dimenticato. Lui però ignora
questa premessa alla sua esistenza e vive quindi diviso tra un doloroso bisogno d’affetto e la paura di essere deluso.
Questo lo porta a chiudersi in se stesso, a ergere barriere protettive rispetto
al mondo esterno e a qualsiasi tentativo di avvicinamento. Caterina, infine,
viene riaccolta dalla famiglia d’origine, che la mette a lavorare per assistere
la madre inferma. La sua è, forse, la storia più sacrificata, quella a cui è
dedicato meno spazio. In generale, la delicatezza
con cui l’autrice descrive e accompagna i personaggi negli anni della loro
crescita, la capacità di coglierne i
moti dell’anima, le fragilità, i cambiamenti, fa rimpiangere che non ci
dica di più su ciascuno di loro, che il romanzo sia fin troppo breve, nella sua scorrevolezza, e finisca quando ancora
si vorrebbe leggere, capire, conoscere.
È assai limitante provare a restringere un romanzo come questo tra le maglie strette di un genere. Pur parlando di ragazzi e avendo una prosa assolutamente accessibile a un pubblico giovane, i temi, il ritmo, lo spunto iniziale e il messaggio di fondo lo tagliano fuori dalla narrativa young adult in voga al momento e lo rendono al contempo adatto anche al lettore adulto. Nell’opera di Carminati, la profondità passa attraverso la levità della scrittura, la capacità di intercettare le sfumature della lingua senza mai cadere nella ridondanza, neanche di una sola parola. Al centro, piccole storie che scorrono dentro e attraverso la Storia, ma anche una riflessione su cosa sia davvero famiglia («In tempo di guerra si può fare la besciamella senza farina. Allo stesso modo si può fare una famiglia senza parenti», p. 142), sugli incontri che salvano, o su come a volte a farlo possa essere il talento, che si deve riconoscere a se stessi e a cui bisogna concedere il giusto spazio.
Carolina Pernigo