La mia Ingeborg
di Tore Renberg
di Tore Renberg
Fazi Editore, febbraio 2024
Traduzione di Margherita Podestà Heir
pp. 180
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Tore Renberg è uno degli scrittori più affermati e popolari della letteratura norvegese contemporanea. Tradotto in più di venti lingue e vincitore di numerosi premi letterari, nel 2020 scrive Tollak til Ingeborg (letteralmente, “Tollak di Ingeborg”), tradotto in italiano in La mia Ingeborg e pubblicato da Fazi Editore nel 2024.
Eletto libro dell’anno dai librai norvegesi e divenuto subito bestseller, La mia Ingeborg si fa scoprire fin dalle prime pagine come un libro intenso e crudo, in cui le affettazioni e le parole di comodo rimangono molto lontane dal protagonista narrante, un uomo che parla solo quando ha qualcosa da dire, il cui linguaggio è minimo e stentoreo, ma che riesce a emettere un’inaspettata dolcezza nelle dolorose invocazioni alla moglie morta.
Eletto libro dell’anno dai librai norvegesi e divenuto subito bestseller, La mia Ingeborg si fa scoprire fin dalle prime pagine come un libro intenso e crudo, in cui le affettazioni e le parole di comodo rimangono molto lontane dal protagonista narrante, un uomo che parla solo quando ha qualcosa da dire, il cui linguaggio è minimo e stentoreo, ma che riesce a emettere un’inaspettata dolcezza nelle dolorose invocazioni alla moglie morta.
Ingeborg avrebbe risposto che è così perché non voglio parlare con la gente.Tollak di Ingeborg è un uomo anziano, vive nella brughiera norvegese, distante dalla città e da qualsiasi altra presenza umana e moderna. Mentre attende i due figli, ormai adulti, e si prepara ad affrontarli per rivelare loro una verità sconcertante sulla morte della moglie Ingeborg, i suoi ricordi emergono dal buio di una casa sporca e trasandata, abbandonata al proprio destino, che rispecchia l’autoabbandono che il protagonista si è creato e tutela.
È con lei che parlo.
Le parlo più adesso di quanto non abbia mai fatto prima. Giro per la casa, in cortile, per i boschi e parlo con Ingeborg. (p. 115)
Irrimediabilmente ammalato e alcolizzato, Tollak ricorda la sua Ingeborg, la vita insieme alla moglie, alcuni stralci d’infanzia dei figli, soprattutto il mutamento della figlia Hillevi, una bambina piena di vivacità che cresce allontanandosi sempre di più dal padre. Un’incomprensibile evoluzione che Tollak giudica come una distruzione del gioioso stato naturale della figlia da parte di una società moderna corruttiva. Agli occhi del padre, Hillevi appare drammaticamente fragile e dimagrita, ma è proprio attraverso le parole di Tollak che scorgiamo un’altra verità, non soltanto la sua versione della storia, ma ciò che l’anziano uomo con ogni probabilità nasconde a se stesso, un vissuto familiare che è stato doloroso per i suoi figli.
Attraverso le memorie di Tollak, che ci arrivano tagliuzzate, sparse nel tempo, e taglienti come i frammenti di un vetro rotto, si creano due binari paralleli dello stesso racconto, due prospettive divergenti che raccontano la verità di tutti – da un lato quella di Tollak, dall’altro quella della famiglia – e a entrambe le storie il lettore dà credito.
Tollak racconta la sua verità, una verità universale, che incarna la difficoltà di una generazione anziana di ritrovare un proprio posto in un mondo ormai moderno, radicalmente diverso da quello in cui si è cresciuti, ci si è sposati, si è vissuta la propria esperienza di padre. Attorno a lui tutto cambia, ma Tollak è fermo: fermo nella sua segheria da tempo fallita, fermo nella sua casa lontana dalla civiltà, dai negozi, dalla vita sociale di cui la moglie sente invece la mancanza («Un po’ più di vita intorno a me, Tollak» p. 114), fermo nell’innalzare le proprie difese contro qualsiasi cambiamento, contro il televisore e la radio che getta via, contro i figli che si sono “rammolliti” e resi fragili perché parlano di sentimenti e vivono nella capitale.
La nuova epoca non aveva chiesto il permesso. Si era intrufolata a forza nel modo di vivere che abbiamo quassù. Si era insinuata nel soggiorno, nella camera da letto, nella bocca e nel corpo. […] Non le importa di me e di ciò che è mio, e io detesto il suo modo di incedere. Non mi piace il suo volto. Non mi piace il suo suono, non mi piace il suo odore. Non proviamo nessun interesse reciproco. […] Ho voltato le spalle a questa nuova epoca molto tempo fa. […] ma ho ancora qualcosa: sono quello che sono. (pp. 17-18)Tore Renberg ha reso piena giustizia a un personaggio profondamente ferito e immiserito nel lutto e nella violenza, incapace di far fronte e adattarsi alle trasformazioni sociali di un’epoca nuova. Tollak ci appare nella sua dicotomica versione di uomo che si riesce a disprezzare e al contempo averne una sofferta pena. Un personaggio decadente inserito in un ambiente ancor più decadente, nel freddo notturno di un’arida solitudine.
Unica presenza amica, attorno a cui si avvolge il secondo mistero del libro, è Oddo, un ragazzo con evidenti problemi cognitivi e relazionali che Tollak prende con sé come figlio proprio e che impone a tutta la famiglia. In Oddo si racchiudono le verità scomode, una sincerità spesso indecifrabile, perché rivelata con un linguaggio tutto suo.
La mia Ingeborg si svolge come un thriller, un racconto ad alta intensità che lascia trapelare pochi indizi sulla vita del suo protagonista, per poi calare l’ascia del boia verso metà libro, dando al lettore sempre più materiale per giudicare il personaggio, per compatirlo e comprenderlo pur nella durezza e brutalità del suo carattere.
Il pregio del romanzo e della scrittura di Renberg è di riuscire a delineare, attraverso un linguaggio potente e icastico, un profilo umano impossibile da catalogare, ricco di sfaccettature caratteriali contro cui non ci si avventa con leggerezza, nonostante le azioni deprecabili che Tollak stesso ci confessa. E “confessione” appare proprio il termine più adatto per definire la narrazione di questo testo: una sorta di diario mentale del protagonista, che rammenta, trasogna e racconta. Brevi paragrafi che si lasciano divorare, una sorta di raccolta di accorate confessioni che si leggono come un flusso di coscienza, con il fiato sospeso e le sopracciglia aggrottate, mentre si avverte la sensazione di entrare in un tunnel oscuro, nei meandri dell’oscurità psichica umana.
Un romanzo perfetto per chi ama eclissarsi nella coscienza tormentata di un personaggio, nel mistero delle inspiegabili azioni che infine decidono la vita di un uomo, il suo esito finale. Un romanzo non da sorseggiare, ma da buttare giù in gola, senza interromperlo per riprendere fiato.
Federica Cracchiolo
Social Network