di Daniele Mencarelli
€ 9,99 (ebook)
Torna in libreria, a pochi mesi di distanza dall’uscita di Fame d’aria (recensito qui) Daniele
Mencarelli, con una raccolta poetica che racchiude due brevi poemi, “Storia d’amore” e “Lux Hotel”, che si scoprono opposti e complementari. Sin dal
titolo, infatti, la raccolta ci suggerisce la chiave interpretativa da
adottare, la contrapposizione tra due
modelli possibili, uno dei quali – quello eroico – dominante ma forse non
vincente, e uno – quello che potremmo definire erotico, nel senso etimologico
del termine – meno scontato, più arduo, eppure denso di prospettive nei termini
di quell’affondo esistenziale che è
sempre al cuore dell’opera di questo autore.
Non deve stupire il lettore la scelta del verso: per Mencarelli, tutto comincia dalla poesia, e alla
poesia può e deve tornare. Gli stessi romanzi in prosa ne sono costellati: da La casa degli sguardi, in cui la
scrittura poetica diventa modo per dar forma alla propria redenzione e render
grazie di quanto ricevuto a Tutto chiede
salvezza, dove la poesia arriva all’uomo per portargli quella traccia di
senso che va cercando; o ancora in Sempre
tornare, dove le parole e i versi sono la via per eternare l’amore giovane.
Questo è anche il tema del primo testo del volume da pochi giorni
edito da Mondadori. La “storia d’amore” di cui si parla è quella tra due
adolescenti, Gabriele e Anna. Lui ha sedici anni ed è un ragazzo di paese
cresciuto nella logica del branco,
tra bevute e pasticche, piccole e grandi bravate, infiniti tentativi di placare
un’inespressa inquietudine esistenziale
(«mille i cazzotti mille i baci /
strappati dalle labbra di un paese / sgranato passo dopo passo, / senza mai
soddisfarla veramente / questa fame infelice / questo desiderio cane di carne e
vita», p. 13). Lui e i suoi amici, fratelli per elezione, sono i padroni
del borgo, o così almeno si sentono. Hanno etichette
che gravano loro addosso, a loro volta le applicano, in base a quelle agiscono,
dirigono i loro passi, in cerca di una conferma di ciò che sentono già scritto.
La loro ferocia sfoga il malessere interiore
dato da un ambiente asfittico, in cui tutto – di loro, della loro strada –
sembra una gabbia da cui è
impossibile fuggire. Gabriele, però, è agitato da qualcosa di più profondo, un senso di diversità che avverte e non
osa dire, che cela accuratamente dietro
a una maschera spessa, omologata
(«i vostri visi esaltati colmi / cercano
sul mio medesimo consenso, / alla fine mi faccio uguale recitando», p. 19).
Poi però arriva Anna, che all’inizio pare solo una facile
conquista, una sfida, una ricerca di conferma alla propria mascolinità («tu sarai una bocca come le altre / una
parola vuota un corpo da bucare, / di te rimarrà un racconto serale / l’ultimo
dopo tutte le cose serie», p. 20). Ma poi lei sfugge e resiste, si sottrae
e quindi attrae, cambia il copione e, così facendo, esce dalla banalità delle cose già viste e previste. Si entra nel territorio friabile dell’imprevedibile,
che attira e terrorizza. Nel progressivo avvicinamento, nella lenta esposizione
di sé, nel rischio che questo comporta, il dolore arriva ancora a ondate,
inaspettato nel canto di un amore nascente – soprattutto di notte, quando cala
il silenzio: «lì si è soli contro il
gigante, / perdersi è l’unico riparo / stordirsi fino a dar via la mente»
(p. 32), lì il sorriso di lei si fa àncora a cui aggrapparsi per non
naufragare. L’amore si fa strada
piano, trasfigura («tutto grazie a te si fa bellezza», p. 53)
e apre alla verità.
Il pericolo per l’io narrante è quello di considerarlo una cura, di affidare una responsabilità troppo grande a una quattordicenne («curami coi baci / guarisci quel che non ha nome, / poi continua per dare al desiderio / la forma esatta del tuo corpo», p. 38), o di mutare il proprio sentimento in ossessione, in una nuova dipendenza. Quando lei non c’è, trionfa il male, il vuoto di senso:
Non è teatrale il mio demonio
non è mostruoso non ama il fuoco
lui gioca a svuotare le promesse. […]
Questa è la terra dell’inferno
questo niente da tramandare
niente da difendere niente da sperare. (pp. 94, 95)
Ciò che salva Gabriele è il suo animo interrogante, la sua consapevolezza di una intima fragilità: la grandezza dell’amore lo pone di fronte al suo bisogno di trascendenza, che si scontra con la continua tentazione di un nichilismo che devasta («Chi posso inginocchiato ringraziare? / […] Chi o che cosa è così grande? / E se fosse niente da ringraziare / come si ringrazia il niente?», p. 70). Anna, come tutti, un giorno dovrà spegnersi a questa terra, e l’ossessione per la morte, in particolare per la morte possibile di lei, vissuta come un sacrilegio, si unisce alle domande assillanti su un altrove, alle apostrofi a Dio. La ricerca del divino è il contrappunto all’amore, e non cessa pur se continuamente frustrata:
La caccia all’uomo è cominciata
mastico terra dietro le Tue tracce
sono un mastino mai arretro,
ogni giorno fiuto il Tuo odore.
[…]
Ti sfioro e quell’istante
è pace ristabilita sulla terra. […]
Ti perdo e la solitudine mi uccide. (pp. 92,93).
L’amore è ciò che tutto riscrive, che rinnega un passato di finzione e anela spasmodicamente a qualcosa di vero. La ricerca di senso, montalianamente, arriva sempre a un passo dallo spiraglio, dal varco agognato, dalla “parola miracolosa”.
Un giorno saprò dire tutto questo
con una sola parola, miracolosa,
dirà tutto svelerà ogni cosa,
cadranno una volta pronunciata
tutti gli inganni sparsi sul percorso. (p. 106)
E poi c’è la vita, che cambia forse i piani, a volte nel modo più imprevedibile
o ingiusto, ma che non inficia il valore di questo slancio, che è sempre in
avanti e verso l’altro, verso un altro che ci fa intravedere l’Altro. Nella
nota conclusiva, Mencarelli scrive di aver voluto mostrare «l’amore nella sua dismisura», dove
l’eccesso non ha valenza negativa, ma indica un “oltranzismo” positivo, generativo, un andare oltre i limiti
imposti e i propri nell’inesausto inseguimento di un significato esistenziale.
Completamente diverso è invece lo scenario delineato dal secondo poema, e lo scarto – contenutistico, ma anche formale – è tanto brusco che il lettore
ci mette alcune pagine a riprendersi dallo spiazzamento (evidentemente voluto e
ricercato dall’autore) e a entrare nel nuovo racconto. Tanto il primo era
localizzato con precisione nel tempo e nello spazio, grazie a esplicite
indicazioni, tanto il secondo assume contorni
nebulosi e una dimensione quasi
universale. Il testo è tripartito, a segnare la lunghezza e le tappe di una notte eterna. È sera, dapprima. Un
clima di fervente e trepida aspettativa anima il Lux Hotel, luogo dello sforzo,
della luce e del lusso, a cui rimanda anche il nome altisonante. Si prepara il concierge, atteggiato a Lord, ma su cui
aleggiano voci relative a un torbido passato. Si prepara anche il cameriere del
turno di notte e freme (o trema) per un segreto conosciuto, un ordine ricevuto.
Ecco in arrivo i tre eroi, i salvatori
della patria, coloro che hanno abbattuto il dittatore. Tutti loro si
accingono a qualcosa di proibito. Si fanno agenti del destino.
poker
azzardo vietato al Lux Hotel,
poi il fiume di minacce
che il concierge mi alita sul viso
se soltanto mi permetto di fallire. (p. 130)
Poi tre berline,
tre belve nere a fari bassi
lasciano all’ingresso
il mio destino. (p. 131)
Si fa chiaro ormai che nei due poemi si delineano due vie, una che salva e una che condanna. Marte, Nettuno, Mercurio (questi i loro nomi di battaglia, da divinità trionfali) sono in realtà figure grottesche, arroganti, abituate ai riflettori e a essere obbedite. La partita a carte è fin da subito un gioco violento, una gara per il predominio, che rivela le anime dei singoli (Nettuno una bestia feroce, Marte gradasso, «con qualcosa di maiale nello sguardo», Mercurio pavido, pungolato da una rabbia repressa). La notte avanza. Dalla luce si assiste a un rapido sprofondare nell’abisso: il gioco si fa scenario d’orrore. Nel crollare, il mito degli eroi, dei vincenti, trascina tutto con sé. Anche per questo, la furia di Mercurio, che improvvisamente esplode, ha un che di iconoclasta. Sono gli idoli, più che gli individui, a essere abbattuti. La morte mette tutti i protagonisti di fronte a sé stessi, li obbliga a riconsiderare il proprio posizionamento all’interno dell’esistenza, ma nessuna risposta pare consolante, o convincente («questa notte è il mio castigo / per tutti gli anni / passati da imboscato», p. 174). La riflessione si sposta quindi dal piano individuale a quello collettivo: come può un Paese sopravvivere al proprio mito? Non può, sembra essere la risposta, e allora la mascherata continui, prosegua la parata carnevalesca nell’alba che incombe, quale che sia il prezzo da pagare.
Non potrebbe esserci finale più amaro, se non ci fosse, prima,
“Storia d’amore” a suggerire un’altra possibilità: quella di decostruire il modello imperante, di sovvertire i valori su cui si fonda la
società, costruire e rivendicare un nuovo ideale di eroismo, quello –
antitetico rispetto al precedente – «del
perdono, della compassione, del coraggio che soccorre» (p. 190). Solo in
questo modo si può avviare l’era di un
nuovo umanesimo, quello che, appunto, pone al centro l’uomo.
È evidente che questa nuova opera di Daniele Mencarelli differisce
dalle precedenti a livello formale. Non lo fa, però, nel suo senso più
profondo, nel messaggio che vuole portare avanti, nel suo concepire, ancora una
volta, la poesia come «gesto di
resistenza».
Carolina Pernigo
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