Tangerinn
di Emanuela Anechoum
Edizioni e/o, gennaio 2024
€ 18 (cartaceo) € 11,90 (e-book)
Se solo fosse stato vero. La solitudine è una forma di assenza, e nel mio caso a mancare ero io: sentivo questo vuoto nel centro del mio corpo, e arraffavo, arraffavo per riempirmi. Iniziavo a ricordarmi chi ero prima di partire e a scoprire dolorosamente che non c'era niente di speciale nel mio dolore: ero stata un'adolescente spezzata, e un'adolescente spezzata non si aggiusta mai. (p. 55)
Emanuela Anechoum, autrice che lavora nell'editoria e nel campo dei foreign rights - già penna di Vice, Doppiozero e Marvin Rivista - pubblica questo bel romanzo partendo da una domanda: cosa significano i luoghi che scegliamo di abitare? Ma, soprattutto, cosa significano i luoghi che scegliamo di lasciare?
La protagonista è Mina, che utilizza fin da subito un punto di vista in prima persona rivolgendosi però a un "tu" d'eccezione (scelta narrativa coraggiosa, che in questo caso è ottimale e funziona molto bene): suo padre, Omar. Il romanzo si apre con la notizia della sua morte, dunque per tutta la durata della storia Mina racconterà parlando a noi, ma isolandosi dallo sguardo del lettore in un dialogo intimo e chiuso con lui.
In giardino, l'albero di mandarini tangerini era invecchiato ma ancora rigoglioso. Berta ci raccontava che l'avevi piantato tu quando era rimasta incinta di me - era il mio albero gemello, acidognolo, un po' sbilenco, ma carico di frutti e resiliente all'inverno [...]Tu non c'eri più, eri dappertutto. (p. 35)
Mina è figlia di genitori misti, mamma italiana, papà marocchino. Più che la sua storia - la storia di una ragazza expat che fugge dal suo paesino di nascita della Calabria per andare a vivere a Londra - il libro evoca la storia di Omar. Evoca anche la complessità del loro rapporto, fatto di silenzi, incomprensioni, affetto represso. Queste contraddizioni si riflettono anche nel rapporto che Mina ha con sua madre, Berta, una donna sui generis; con sua sorella Aisha, la classica sorella maggiore resistente e flessibile; e con se stessa. Mina è triste, rotta, sola. Si vede solo attraverso l'idea che gli altri si fanno di lei, imita le sue amiche, soprattutto Liz a Londra, perché vuole esistere per qualcuno. Scappa, proprio come ha fatto suo padre negli anni '80 dal Marocco, con la voglia di trovarsi, di avere di meglio, di riempire una voragine.
Il romanzo parla di fame, fisica se riferita a Omar, interiore se riferita a Mina. Costretta a tornare in Calabria per la morte del padre, dovrà abituarsi di nuovo a quello spazio che aveva lasciato, dovrà fare i conti con la versione precedente di sé che aveva abbandonato (ma l'aveva poi abbandonata davvero?).
La vidi con le sue preoccupazioni e le sue responsabilità da sorella maggiore, che io non avevo mai avuto. Da quante cose mi aveva protetta? Quante altre me ne aveva taciute per non farmi sentire in colpa? Cosa vedeva lei in quel momento, guardandomi - mi vedeva ancora bambina? Mi riconosceva ancora, nonostante le mie tentate metamorfosi? Dove vanno le versioni di noi che scartiamo negli anni, quelle obsolete, noiose, infantili, quelle non sufficientemente interessanti e consapevoli, quelle ignoranti, egoiste, quelle vere? (p. 134)
Ecco, Mina cerca di trasformarsi ma non ci riesce. Quando torna a casa, lasciando indietro la sua falsa vita emancipata e cool di Londra, capisce che da lì non è mai andata via. Non è facile da accettare: aver sprecato anni a inseguire una chimera per poi realizzare di non aver superato il passato e non sapere cosa volere dal futuro. Mina è un po' una di noi, persa e senza appigli, e il suo spaesamento non è altro che una copia dello spaesamento provato dal padre da piccolo, da giovane, forse anche da adulto.
Come dicevo, Mina racconta la vita di Omar: la fame, la guerra, il Marocco degli anni '80, il talento per la corsa, l'incontro con persone che avrebbe potuto capovolgere le sorti della sua esistenza. Invece no, Omar finisce in Calabria, incontra Berta, la sposa, apre un bar di nome Tangerinn che fa eco a un vero locale omonimo di Tangeri, ritrovo di artisti, poeti, scrittori, architetti della beat generation.
Di straordinario il bar di Omar non ha nulla (in apparenza), è solo frequentato dagli immigrati della zona. Aisha però se ne prende cura, come di tutte le persone che passano da lì e dal centro di accoglienza. Mina? Lei rifiuta il pensiero, significherebbe ricadere nella vecchia versione di sé, quella che soffocava al pensiero di restare lì.
Non farti mai convincere che l'essenziale sia qualcosa di accessibile solo ad alcuni. Non credere a chi ti dice che l'ambizione sia desiderare di entrare nella classe degli eletti/ Diventa chi sei, Mina, è quella l'unica ambizione. (p. 165)
Come si diventa ciò che si è? Questa è un'altra domanda che l'autrice semina nel testo. A volte la risposta si trova nell'incontro fortuito con qualcuno che indichi la via; altre, nel caso, nel destino; altre ancora, nell'accettazione di una condizione a lungo rifiutata, ma che può rivelarsi sorprendente. Possibile anche non diventare mai ciò che si è. Si continua a girare in tondo accontentandosi di ciò che la vita offre, come Omar: un paesino sul mare, una moglie fragile, due figlie amatissime, un piccolo bar sulla spiaggia.
Il romanzo di Anechoum è un romanzo anche politico: parla di ciò che non vogliamo sentire, degli immigrati, di come arrivano, di come partono, di come vengono trattati. Politico anche nella descrizione dello stato d'animo di una ragazza che non ha prospettive ed è costretta a lasciare tutto per cercare una vita decente all'estero. Politico nello spazio di un corpo che lei sente non conforme, di un colore di pelle diverso, di un rapporto con un'amica ricca e stupida che cerca di essere progressista, ma risulta solo razzista e classista.
Mi sono chiesta se fosse un romanzo autobiografico, ma in un'intervista per e/o Anechoum sostiene di aver costruito il testo sulla base di alcune storie raccontate da suo padre, quello vero, e che la figura di Mina è volutamente distante da sé. Innegabile però che ci siano delle analogie: famiglia mista, lavoro a Londra, il Marocco, la Calabria. La scrittura è bella, elegante. Forse il tono risulta un po' schiacciato, monocorde, ma ciò non toglie nulla alla storia.
Deborah D'Addetta
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