di Maria Larrea
Feltrinelli "I Narratori", ottobre 2023
Traduzione di Elena Cappellini
pp. 171
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Probabilmente tuo padre non è tuo padre.»
Mi si contorce lo stomaco, di fronte a quella sentenza mi esplode il cervello.
Eccolo, l'aneurisma.
«Tua madre ti sta nascondendo qualcosa sulla tua nascita, Maria. Devi parlarle al più presto.» (p. 81)
Maria ha ventisette anni quando una cartomante stravolge la sua esistenza. La sua vita sembrava essere in equilibrio dopo la frequentazione della prestigiosa scuola del cinema La Fémis a Parigi, un futuro da regista, un matrimonio e un figlio. Quella lettura divinatoria apre una voragine in quella donna dal passato complicato, ma appare illuminante: forse è la risposta al perché si è sempre sentita diversa, fuori posto.
Nella prima parte dell'opera il lettore conosce l'infanzia dell'io-narrante, quella bambina dalla «malattia segreta» (p. 35) che la porta a rovistare nervosamente, in continuazione, dappertutto quando resta a casa da sola: Maria trascorre i primi anni di vita a Parigi nell'appartamento di servizio del Théâtre de la Michodière dove «non c'era niente di abbinato» (p. 26) ma due televisori sempre accesi per quei viziosi dei suoi genitori, la madre Victoria, donna delle pulizie dalla sconvolgente bellezza e il padre Julian, custode del teatro, alcolizzato e spesso violento.
Immigrati spagnoli, i genitori di Maria hanno a loro volta un passato difficile che conosciamo attraverso capitoli che intervallano il piano narrativo principale, ambientati in una Bilbao del dopoguerra che fa da sfondo a personaggi caricaturali ed eventi rocamboleschi: Victoria è stata abbandonata in convento per dieci anni e poi ripresa dalla poverissima famiglia galiziana di origine che non è mai riuscita ad amarla; Julian, figlio di una prostituta obesa, è cresciuto in collegio.
Maria condivide da sempre con i genitori un «comune e inspiegabile dolore» (p. 64) che da bambina cerca di lenire organizzando finti compleanni, durante l'adolescenza mentendo sulle sue umili origini, trasformando Julian in direttore di teatro e Victoria in casalinga e facendo uso di droghe («Skunk. Popper. Romanzi. Più avanti coca. Vestiti. LSD. Ero.» p. 64).
Un'unica certezza l'accompagna dal giorno in cui vede per la prima volta Il tempo dei gitani: si riscatterà e farà la regista.
La lettura di quei tarocchi apre la seconda parte del romanzo dove la ricerca spasmodica e ossessiva della verità e delle proprie origini porterà Maria a Bilbao, la città a forma di scodella dov'è nata.
Quale menzogna si cela dietro la sua nascita? Chi è suo padre?
Con una scrittura cruda ed esplicita, Maria ci trascinerà nella sua tormentosa indagine, impedendoci di smettere di leggere: attraverso detective privati, genealogisti e test del dna scaverà con determinazione nel suo passato per chiudere il cerchio e trovare finalmente la pace e la libertà.
Ma se è vero che conta il cammino e non la meta, Larrea sembra proprio condurci in questo suo viaggio non tanto per la rivelazione finale quanto per insegnarci quello che ha imparato: accettarsi e scrivere la propria storia, perché in fondo, il momento della propria nascita lo si può solo immaginare e la scrittura ha «l'insospettabile potere di provocare una reazione nella realtà» (p. 152).
«Inventerò la mia storia, perché la gente di Bilbao nasce dove vuole, come dice il proverbio. I baschi sollevano pietre, tagliano alberi, sono più forti dei certificati di nascita.Sarò ciò che voglio diventare. Sarò romanziere, sarò quello che scrivo. Scriverò ciò che ero.» (p. 168)