Ricominciare da zero. Un obiettivo che si prefigge la protagonista di Cuore nero, pur sapendo che le sarà molto improbabile se non addirittura impossibile farcela. Un obiettivo che mi sono prefissata anch'io, nel leggere questo nuovo romanzo di un'autrice che, in passato, mi aveva delusa al punto da ripromettermi di non tornare sulle sue pagine. Poi gli anni passano e, un po' come l'Emilia protagonista del romanzo, mi sono detta: perché non provarci?
Ma andiamo con ordine e soprattutto estromettiamo la prima persona. Nelle prime pagine del romanzo, Emilia Innocenti (nome dagli echi paradossali) e suo padre arrivano a Sassaia, frazione di Alma, un paesino piemontese, dimenticato in mezzo alle montagne. Sassaia, lontana da tutto, è sprovvista di strade asfaltate ed è difficilissimo perfino avere la televisione. Per arrivare alla casa della zia Iole, occorre fare una scarpinata in mezzo al bosco, affrontare salite e sentieri resi scivolosi dal mese di novembre. Allora perché una trentunenne decide di trasferirsi lì? Emilia è appena uscita di prigione, dopo oltre quattordici anni di detenzione per un crimine di cui si percepisce tutta la gravità, ma di cui scopriremo solo verso la fine della narrazione. La protagonista stessa, infatti, deve imporsi di non pensarci per poter anche solo provare a ricominciare:
Il paradosso era questo: che l'evento principale della sua vita lei non lo poteva pensare. Né ricordare, né raccontare, né niente. Doveva fingere che non fosse accaduto. Eppure lo sentiva: inamovibile, compatto all'altezza del cuore. Come un grumo rappreso di buio, un pezzo di grafite appuntito. E pericoloso, pure. Mortale, come un tumore quiescente, un proiettile inesploso. Se lo doveva tenere, prestando attenzione a non smuoverlo troppo, a non stuzzicarlo. Perché se si apriva, se esplodeva, il nero l'avrebbe invasa ovunque, fino alla paralisi. (p. 291)
Ad accorgersi di lei, un vicino di casa che ha preferito anche lui la solitudine, ma per motivi molto diversi: si tratta di Bruno, il maestro del paese, più vecchio di una manciata di anni. È proprio Bruno la voce narrante della vicenda (scelta non scontata!), e da lui è quasi sempre filtrata la focalizzazione del presente. Chi sia la ragazza che balla discomusic nella casa della vecchia Iole non è dato saperlo per un bel pezzo. Eppure i due si incontreranno, condivideranno tanto delle loro due solitudini (così è intitolata la prima sezione del romanzo), serbando però ben stretti i rispettivi segreti. Segreti che li hanno portati a isolarsi, perché entrambi hanno un prima che non riescono a raccontare. In ogni caso, si tratta di un evento che ha tracciato una linea spartiacque invalicabile e che li ha resi più schivi, diffidenti, eppure affamati d'amore, di comprensione e di accettazione:
«È stato l'inferno» dissi a Emilia. «Finché tu, di punto in bianco, dopo venticinque anni, non mi hai fatto venire il dubbio che, nonostante tutto, valga ancora la pena vivere». (p. 140)
E così, anche se nell'aria di Sassaia si respira il profumo di una possibile storia d'amore, Silvia Avallone fa percorrere ai suoi personaggi un cammino accidentato: anche solo provare a rinascere dai propri sedimenti è difficile. Per impiegare un'altra metafora, sia Bruno sia Emilia devono imparare a guardare il proprio passato attraverso le croste di colori dalla patina ormai spenta; sotto, c'è la luce, ma ancora non lo hanno capito. Se Emilia, con la sua laurea in Belle Arti, si rivela un'abile restauratrice delle opere d'arte presenti nella Chiesa del paese, anche grazie all'aiuto del saggio artista locale Basilio, più difficile è riparare un quadro che racconti la propria vita e che mostri tutte le ombre del suo cuore nero.
A intervallare il piano del presente, c'è il passato di Emilia in carcere: sono gli anni dell'adolescenza, quelli in cui gli altri sperimentano i propri limiti, scoprono l'amore, il proprio corpo, trovano un proprio posto nel mondo. Lei è rimasta fuori da tutto questo, immersa suo malgrado in un mondo femminile fatto di regole ufficiali da rispettare e regole sottobanco che possono costare anche di più a una carcerata. Lì ci sono state grandi amicizie - su tutte, resta scolpita quella con Marta -, ma anche tanti momenti bui, che hanno tormentato Emilia ricordandole ciò di cui si è macchiata. La possibilità di istruirsi, persino di prendere la laurea, è stato un piccolo sprazzo di luce in anni cupi, pieni di sofferenza. Ma, fortunatamente, anche di vita, di pulsioni in qualche modo da sublimare o sfogare, mentre i sogni per il futuro venivano continuamente stroncati sul nascere dalle notizie di cronaca che aumentavano i sensi di colpa di Emilia, già brucianti.
Di pagina in pagina, comprendiamo meglio le asperità del carattere di Emilia, così come la ritrosia di Bruno. Se all'inizio del romanzo è soprattutto il desiderio di scoprire che cosa abbia commesso Emilia ad animare la nostra curiosità, poi sopravanza una domanda: cosa succederà quando Bruno scoprirà il passato di Emilia? Perché è chiaro fin da subito che non c'è un "se", ma un "quando" lì sospeso di capitolo in capitolo, una paura che attanaglia la stessa Emilia:
Bruno ti scoprirà, si disse, e non vorrà più vederti. Il Basilio ti licenzierà. Gli abitanti di Alma ti cacceranno con i forconi perché così è giusto. Non esistono luoghi sulla Terra per te, è con i diavoli che devi stare, presa dai loro artigli, arsa tra le fiamme.
Era solo questione di tempo, eppure. Quel tempo, nonostante fosse fragile e poco, nonostante se stessa, lo voleva vivere. (pp. 88-89)
Dunque, mi sono ricreduta sulla scrittura di Silvia Avallone? Solo in parte. A lei va il merito di aver scritto un romanzo che ci porta a provare empatia e simpatia (in senso etimologico) per la protagonista, senza mai giustificarla; così facendo, riesce a farci superare il pregiudizio che una simile storia potrebbe portare con sé e arriviamo a entrare nella vicenda con tutti e due i piedi e senza più alcuna difesa emotiva, prima di scoprire cosa abbia commesso Emilia. E anche la vicenda di Bruno, di cui purtroppo posso anticipare pochissimo, è altrettanto meritevole d'attenzione, perché il suo trauma testimonia quanto un evento vissuto nell'infanzia possa avere una risonanza straordinaria nella vita adulta.
La storia è così forte da avermi spinto a chiudere un occhio - a volte due - davanti a uno stile che talvolta mi ha portata a chiudere il libro. Certo, poi l'ho riaperto, desiderosa di capire cosa sarebbe accaduto, ma non l'ho fatto certo per la scrittura. La sovrabbondanza di dislocazioni a sinistra e di altri escamotage per rendere la narrazione apparentemente più colloquiale non funzionano sempre. Tuttavia, il vero problema si concentra nella prima parte del libro, quando pare che lo stile voglia a tutti i costi dimostrare qualcosa: si avvertono, in particolare, accostamenti fastidiosi tra un sostantivo comune e un aggettivo che vorrebbero forse costituire degli esempi di callida iunctura (ma che tanto callidae non risultano). Si pensi, ad esempio, proprio nella prima pagina al sintagma «su questo crinale illibato»: perché "illibato"? Non suona come la ricerca di un accostamento ricercato che, invece, stride e grida inverosimiglianza? Ecco, se non ho chiuso il libro allora è stato solo e unicamente perché avevo ascoltato il giorno prima un'intervista davvero interessante a cura di Silvia Nucini nel podcast Voce ai libri, e l'intentio operis mi ha spinta a perseverare. A onor del vero, bisogna dire che questa tendenza, che sembra dettata da un'ansia stilistica un po' goffa, va via via perdendosi: la narrazione si fa sciolta nell'ultima parte del romanzo.
Non consiglierei mai Cuore nero come esempio di scrittura, ma lo potrei consigliare a chiunque non creda nella possibilità che i detenuti si possano riabilitare e reintegrare nella società; la detenzione, i sensi di colpa di Emilia, il duro lavoro su sé stessa al fine di provare a perdonarsi, intervallato da pesanti ricadute, ci fanno capire senza facile buonismo che il percorso è complicato e non sempre giunge a compimento (come è accaduto, infatti, per alcune compagne di carcere di Emilia), ma questa non è una valida scusa per gettare le chiavi con noncuranza.
GMGhioni
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