di Viola Di Grado
€ 9,99 (ebook)
La marabbecca. Una donna fatta di buio, che dal buio emerge per trasformare in buio anche te. Me la ricordo da un libro di leggende di mio padre. Un vecchio libro rosso con il dorso spolpato dalle tarme. Mio padre lo donò al mio asilo insieme ad altri, perché ogni anno si liberava di una trentina di libri invenduti. La storia della marabbecca mi faceva paura. La immaginavo informe, come un'ombra. La inventarono le madri contadine per impedire ai figli di cadere nei pozzi: era lì che viveva, nera nel nero, in silenzio, in attesa di vita, di un corpo da annientare. (p. 71)
Che questa Marabbecca, «produzione di buio a partire dal buio» sia una raffigurazione dell'inconscio non è difficile da intendere; quale sia il valore dell'inconscio in una galleria di personaggi già privi di Io e Super-Io (volendo ancora utilizzare la tripartizione freudiana) è un mistero.
La protagonista e io narrante è Clotilde, che fortunatamente ci ricorda spesso di avere trentacinque anni, perché pensa e agisce come un'adolescente. Clotilde vive con un uomo che la picchia, non bello, non simpatico, anaffettivo, conosciuto su uno di quei social nati per fare incontrare uomini e donne.
La morte di Igor mi rese felice. Lo amavo da tre anni. Lo amavo come amano i cani. Sdraiata sull'asfalto, ferita, lo cercai con gli occhi tra i cespugli di grevillea arsi dal sole. La luce estiva faceva brillare le lamiere sfondate dell'auto. (p.11)
Questo è l'incipit che fotografa l'incidente d'auto in cui restano coinvolti Igor e Clotilde, a causa di una ragazza, che li aveva fatti andare fuori strada, dopo essere spuntata da una strada sterrata. La ragazza, di nome Angelica, dal bikini glitterato e i capelli biondi, sarà il terzo lato di un triangolo perverso e sadico. In realtà Igor non è morto, è in coma, e seguiamo la degenza di Clotilde con un linguaggio che potrebbe risultare asettico, se l'autrice non decidesse di usare per ogni nome un'aggettivazione negativa: il profilo del vulcano è tetro, i necrologi insulsi, l'attenzione dell'infermiera è finta come quella di una madre annoiata; il colore delle pareti della stanza è micidiale, le facce dei bebé ottuse, la bocca lercia, gli occhi opachi, il vento pestilenziale, la stanza fetida di camposanto. Tutto questo così per 201 pagine.
L'odio di Clotilde verso la madre, verso le amiche, verso il mondo intero, non viene mai motivato: è un qualcosa che sta là... come un'entità che giustifica il fatto che lei si innamori della ragazza che ha causato l'incidente e il coma di Igor, e che in nome di questo amore deciderà di trasferirsi a casa della ragazza insieme a Igor, che, una volta risvegliatosi dal coma, risulta un povero ebete, che necessita di ogni attenzione, ma che finirà con una museruola in bocca e dentro un gabbione, mentre i tantissimi altri uccelli che vivono a casa di Angelica girano per lo più liberi e indisturbati, lasciando escrementi dappertutto.
Sarà forse una metafora del nichilismo, dell'incomunicabilità o del problema dell'identità, e chiedere forse ancora all'arte di dare forma all'informe apparirà quasi reazionario, ma la storia che ne viene fuori è solo un ammasso inverosimile di personaggi patologici, che risultano non più inquietanti ma comicamente grotteschi perché non hanno più nemmeno un'apparente normalità a cui contrapporsi. Nulla è reale, neppure l'immagine di Catania, che ne vien fuori irriconoscibile. In un crescendo di morte e nulla, assistiamo indifesi a un elenco di orrori (la penna verde che Clotilde si ficca in gola, la tentata violenza di Igor su Angelica, il bagno a mare in mezzo alla spazzatura delle due innamorate), senza capacitarci del motivo di tali "brutture", che non risultano nobilitate né da un delirio alla Céline, né da un'ironia sveviana. Vi è una differenza fra il perturbante e lo splatter: in effetti, il primo è intriso di bellezza, il secondo no.
Passai le settimane successive in una specie di sospensione. Bevevo vodka e guardavo il mare. Mi ponevo domande sulla mia rabbia, ma anziché rispondere mi abbuffavo di gelato al limone. Mi dovevo che dovevo cercare un nuovo lavoro, ma non avevo la forza. Montavo il flauto, lo portavo alla bocca, ma non avevo fiato. Altre volte il fiato usciva ma le note parevano fischi di treni deragliati. Passavo un numero di ore indecente a guardare il mare. Mi dicevo che avrei potuto sopportare tutto questo solo guardandolo: facendolo entrare dentro di me attraverso gli occhi, come un collirio o una lacrima al contrario. Finita la vodka, iniziai a preparare bloody mary con i pomodorini un po' marci che avevo raccolto nel giardino condominiale. (p. 78)
Era ovvio che i pomodorini fossero un po' marci, un po' meno che il mare entri come una lacrima al contrario nell'occhio. Si desiderano delle subordinate come l'acqua nel deserto in questa prosa, ma invece:
Giocherellavo con la penna. La facevo rotolare sul comodino. Mi dicevo: non sono stata io, a cercare la morte. È stata la marabbecca. (p. 79).
Si esce spossati dalla lettura del romanzo di Viola Di Grado, saturi di similitudini come questa: «la bocca protesa sul cesso come nell'attesa mostruosa di un bacio». Si esce soprattutto desiderosi di bello, di vita, di senso. E non perché da poveri semplicioni ci pasciamo nelle storielle zuccherose ed edificanti - perché il messaggio sottotraccia di questa operazione editoriale è che lo schifo e l'orrido sono da "veri intellettuali" - ma perché perfino lo scarafaggio in cui si è trasformato Gregor Samsa aveva una sua intima e poetica autenticità, pervasa di bellezza.
Deborah Donato
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