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Tra realtà e sogno, arcane figure e guizzi di luce, due scritti poco conosciuti di Anna Maria Ortese ne “Il Monaciello di Napoli”

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Il Monaciello di Napoli
di Anna Maria Ortese
Adelphi, 26 gennaio 2024

pp. 119
€ 12,00 (cartaceo)
€6,99 (eBook)

Non hai mai, in nessun momento della tua vita, per esempio un giorno di maggio, avvertito nell’aria, coll’odor dei fiori e la danza delle farfalle, l’esistenza di un mondo più brillante, più gioioso e soave? E d’inverno, quando il vento urlava terribilmente intorno alla tua casa, con alti gridi un po’ meccanici un po’ umani, e tu sedevi ben caldo nella tua poltrona, non ti è mai accaduto di avvertire, in quella voce un po’ diseguale e dolorosa, il lamento e la ribellione di povere creature inimmaginabili? Certo che sì, Lettore. Esse sono nascoste dovunque, e ci guardano con occhi sì puri, sì dolci, sì pieni di lagrime e raggianti d’amore. Fate dalle sottili trecce bionde, gnomi, coboldi, maghi, spiritelli, fino al caratteristico Monaciello napoletano, di cui parlava mia Nonna, questi esseri vivono, vivono! (p. 13-14)

Due racconti apparsi su due riviste poco conosciute tra il 1940 e il 1942, Il Monaciello di Napoli e Il Fantasma, rispettivamente su «Ateneo Veneto» e «Nove Maggio», rivelano una scrittrice appena venticinquenne che muove i primi passi verso il mondo della letteratura, ma che mostra già di possedere un tratto di penna inconfondibile come quello delle opere maggiori, Il mare non bagna Napoli, Il Cardillo innamorato. Come ricorda Giuseppe Iannaccone, curatore di questo dittico nella nuova veste Adelphi, si tratta di un unicum nella produzione ortesiana. L’ambientazione dei due racconti è quella di una Napoli decandente, malinconica, che si regge su fasti ormai diroccati, palazzi in rovina, che odorano di stantio, echi di un glorioso passato ormai avvizzito. La memoria e il ricordo sono il rifugio in un mondo ormai scomparso che affiorano dalle opere di chi sta vivendo una delle epoche più buie della storia del proprio Paese; non a caso il titolo della rivista dove appare il racconto Il fantasma richiama chiaramente la data dell’annessione dell’Etiopia da parte del regime fascista.

Nella capitale del Mezzogiorno, sonnecchiante e stordita al suo glorioso sole, le antiche famiglie avevano in casa una sorta di genio domestico, un ragazzino, un orfano, spesso vestito da frate, chiamato perciò “monaciello”, ossia piccolo monaco, che riusciva a fare il bello e il cattivo tempo nella vita di chi l’ospitava. Nei racconti delle nostre nonne - anche io posso vantare questo ricordo - i monacielli si mostravano solo ad alcune persone, sapevano essere generosi e affettuosi, ma anche cattivi e dispettosi, oltre che maneschi. Intere famiglie si arricchivano all’improvviso, altre erano invece costrette a lasciare per colpa di queste creature addirittura la propria abitazione! Nicola, il monaciello del primo racconto, è uno di quelli a metà tra la bontà e la monelleria: la sua storia è narrata da una nonna al suo nipotino

Caro bambino,  - essa cominciò con la sua voce tremante - tu non vedrai mai, credo, quella Napoli in cui vissi nei primi anni della mia vita. […] Case dai balconi pieni di fiori nella severa e oscura facciata si alternavano a giardini chiusi da alti muri, e alla cui superficie correva l’onda gialla degli aranci e dei limoni, brillanti nel fogliame oscuro. Le piazze erano semplici e grandi, con un obelisco, dei colombi, un po’ di erba tra i sassi e il sole in cui quei colombi si elevavano a volte, per andare a posa rasi un po’ più lontano, e, al ripasso di sguardi indiscreti, parlar d’amore. (p. 15)

L’anziana donna, che si chiama Margherita, non fa altro che raccontare, con la nostalgia di chi ha perso per sempre un paradiso impareggiabile, l’inizio della sua storia d’amore con Nicola, il monaciello di casa, che ha poi sposato, ma che però è morto anzitempo in una missione militare. «Lingresso, nella nostra cultura, del pensiero francese; i progressi della scienza che mirava con un impetuoso entusiasmo a demolire la credenza nell’ irreale ch’era tanta parte della nostra vita […]» (p. 19) hanno fatto sparire dalle case queste creature arcane, a metà tra la realtà e l’irrealtà, tra il sogno e la ragione, che amavano la buona musica, la buona tavola e la poesia. La nonna racconta di essere stata una bella bambina paffutella, sugli otto anni, dall’animo buono capace di grandi slanci di generosità, inediti per la sua età, quando cominciò a interessarsi a quel bambino che viveva nella sua abitazione, in un grande armadio nella stanza della zia defunta. Lì dentro c’erano anche un mezzo tavolino, altri oggetti insignificanti che appartenevano a Nicola e che lui usava nelle sue scorribande che spesso lo tenevano lontano dal palazzo e facevano stare in apprensione la piccola Margherita, che si ritrovò a sviluppare precocemente una qualche forma di istinto materno: difendeva lo scugnizzo-monaciello dagli attacchi delle sorelle che lo guardavano dall’alto in basso, si preoccupava della salute di lui quando lo sorprendeva con le sigarette in tasca. In queste sue preoccupazioni era consolata dal caro papà che stravedeva per lei, la sua piccola donnina.

È una storia di amore, anzi di Amore e Morte, anche l’altro racconto, Il Fantasma, che reca anch’esso con sé una sorta di realismo magico napoletano, dove le cose che non sono mai state prendono vita, dove il ricordo crea dimensioni alternative della vita. Questo secondo racconto è decisamente più onirico e visionario del primo, in quanto la giovane narratrice, di cui non conosciamo il nome, assiste a uno strano sogno-ricordo: all’improvviso si sveglia e si trova in un salotto stile rococò pieno di enormi specchi e di oro, che si confonde con la luce che trapassa le pesanti tende. Nella stanza, al tintinnio di tazze da tè in fine porcellana decorata, si sta svolgendo una assurda conversazione tra quelli che la protagonista-narratrice chiama i “bellissimi parenti”. Vi è il defunto zio Alberto, fratello della mamma della giovane, che quest’ultima non ha mai conosciuto se non in foto, perché morto soldato a vent’anni; i suoi due figli mai nati, Ines splendida come una principessa orientale e Ariele, un giovane di straordinario fascino di cui la narratrice, scoprirà in questo sogno, è segretamente innamorata. Lo zio Alberto, morto a vent’anni, nell’evocazione dell’assurdo, è vecchio decrepito, è triste; i suoi stessi figli, giovani e bellissimi, sono tristi quanto lui e sembrano attendere qualcosa che non avverrà mai. All’improvviso arriva la Morte, vestita da maggiordomo con tanto di fazzoletto bianco sul braccio, che, con parole suadenti, invita la narratrice a strappare lo spartito della Marcia Nunziale scritto dallo zio Alberto prima di partire per la guerra. Da quella melodia dipendevano le vite dei suoi immaginari figli e la sua stessa vita. Colpisce la reazione dei due giovani e anche quella del servo-Morte all’atto della distruzione dello spartito, ma si lascia al lettore il gusto di scoprire il finale.

Precise ed esatte le considerazioni di Giuseppe Montesano sul retro della copertina:

[…] In uno scenario ancora ottocentesco di salotti pieni di “buone cose di pessimo gusto”, la Ortese mette in scena un suo teatro di burattini dove Amore e Morte bevono il tè in tazze di porcellana e lo scugnizzo-monaciello e la sua amante-madre possono rinchiudersi in un armadio per dirsi la loro passione. Sotto le sue mani i morti tornano a vivere, il Gran Verme diventa un servo da commedia degli equivoci e la morte è sconfitta dall’Amore. 

Campeggia in entrambi i racconti una città raccontata con toni fiabeschi, circondata di luce e di azzurro, coi suoi tratti di ombra, ma che servono solo a far spiccare la luminosità che possiede.

Marianna Inserra