Cose che non voglio sapere
di Deborah Levy
NN Editore, febbraio 2024
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 144
€ 15 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Memoir, reportage letterario, romanzo-saggio, fiction e auto-fiction: sono alcune delle etichette che negli ultimi anni si applicano a un numero interessante di testi che sembrano muoversi a confine tra un genere e l’altro, forme ibride di non sempre chiara catalogazione. L’esperienza confluisce quindi in questi nuovi memoir che sono qualcosa di diverso dall’autobiografia e mirano a uno sguardo che dal particolare possa farsi universale, la materia personale uno spunto per raccontare qualcosa di più complesso e ampio. In questa terra di confine trovano spazio opere notevoli come per esempio – e qui la selezione è davvero ridotta all’osso – i reportage narrativi e i memoir letterari di Joan Didion, le ricerche di Judith Schalansky, la commistione di generi di Dominique Fortier, di Lisa Taddeo, di Elizabeth Hardwick, Marta Ciccolari Micaldi. Sono tutte donne quelle che ho citato, me ne rendo conto ora, scrittrici che si muovono tra una forma e l’altra e costruiscono sulle macerie di quanto è stato necessario prima decostruire: una forma letteraria, una vita, un’identità, un’illusione, un preconcetto. Il pericolo principale, a mio avviso, è quello di una narrazione incapace di andare oltre l’autoreferenziale, un soggettivismo che poco o nulla apporta al lettore e al più generale discorso letterario.
In Cose che non voglio sapere della scrittrice inglese Deborah Levy, la fluidità narrativa – e un certo grado di frammentazione – è il mezzo ideale per costruire la sua “autobiografia in movimento”: da poco in libreria per NN Editore nell’accurata traduzione di Gioia Guerzoni e con una prefazione firmata da Olga Campofreda che aiuta il lettore a orientarsi nel testo, è il primo volume di una trilogia, nel quale la rievocazione dell’infanzia in Sudafrica si intreccia a tematiche che vanno dall’apartheid, il rapporto tra bianchi e neri, la lotta per la parità di diritti, fino alle riflessioni sul mestiere di scrivere, la maternità, l’appartenenza, il patriarcato. Un testo breve, per sua natura incompleto, di cui personalmente non so ancora dire se la divisione in tre volumi distinti sia stata una scelta saggia, ma del quale ho senz’altro apprezzato quella tendenza all’ellissi, la natura di frammento, il rincorrersi dei pensieri sul filo della memoria.
Quella primavera, quando la vita era complicata e lottavo con il mio destino e semplicemente non riuscivo a vedere dove si potesse andare, mi resi conto che piangevo soprattutto sulle scale mobili delle stazioni. Non succedeva mentre scendevo, ma c’era qualcosa nello stare immobili ed essere trasportati verso l’alto che mi turbava. (incipit, p. 13)
Inizia così il racconto di Levy, dalla crisi e dalla necessità di allontanarsi per rimettere insieme i pezzi, della memoria e della propria vita adulta. In una Maiorca praticamente deserta, fuori stagione, si ritrova a scrivere, ragionare, raccontare. E per prima cosa torna all’infanzia, trascorsa nel Sudafrica dell’apartheid. Alla neve caduta un pomeriggio. Alla polizia che bussa alla porta e trascina via suo padre.
Quella sera, mentre sono a letto, la sezione speciale della polizia di sicurezza bussa alla porta del nostro bungalow. Vogliono che mio padre vada con loro e gli dicono di preparare una valigia. […] Il pupazzo di neve mi dice: «Tuo padre verrà gettato in prigione e torturato e urlerà tutta la notte e non lo rivedrai mai più». (p. 47)
Il pupazzo di neve si sbagliava, almeno in parte, e il padre di Levy uscirà dal carcere. Ma è una ferita profonda e un momento cruciale nella storia della famiglia, che coincide anche per Levy con la necessità di far sentire la propria voce, fino a quel momento usata come un sussurro:
Mi era stato detto di esprimere i miei pensieri ad alta voce e di non tenerli solo nella testa, ma io decisi di scriverli […]. Le parole che uscivano dalla biro e finivano sulla pagina erano più o meno tutte le cose che non volevo sapere. (p. 88)
Scrivere diventa il mezzo per ordinare i pensieri, farsi sentire. È una bambina che si muove in una società complessa, ingiusta, nettamente divisa tra bianchi e neri, dove la politica entra nelle case e nella vita quotidiana scardinando certezze e serenità come lei sa bene.
A sette anni cominciavo a intuire una cosa. Aveva a che fare con il fatto di non sentirsi al sicuro con le persone che avrebbero dovuto farmi sentire al sicuro. […] i bambini bianchi avevano paura dei bambini neri. Avevano paura e quindi gli tiravano addosso i sassi o altre cattiverie. I Bianchi avevano paura dei Neri perché avevano fatto loro del male. Se fai delle cattiverie non ti senti al sicuro. E se non ti senti al sicuro non ti senti normale. I bianchi non erano normali in Sudafrica. (p. 57)
Poco dopo il ritorno del padre, la famiglia lascerà il Sudafrica per trasferirsi nel Regno Unito. Il ricordo dell’infanzia, i luoghi, la lingua, le abitudini, lo sradicamento di chi ha lasciato un luogo per un altro e la ricerca della propria identità, anche attraverso la scrittura, accompagneranno Levy dall’infanzia all’età adulta.
Ero nata in un paese e cresciuta in un altro, ma non ero sicura di quale fosse il mio posto. (p. 129)
La scrittura – e questo memoir – diviene il mezzo ideale, quindi, per riflettere su identità e appartenenza, il centro nevralgico per la ricerca della propria voce. Tre volte finalista al Booker Prize, Levy spoglia la scrittura della sua aurea magica, per ritrovare l’essenza di un mestiere che molto spesso è solitudine, frustrazione e che ruota costantemente intorno alla domanda “perché scrivere”. Un’autobiografia in movimento, si diceva: il Sudafrica, l’Inghilterra, Maiorca. Ma anche i movimenti della scrittura, i mutamenti del quotidiano, le relazioni e la perdita, il tentativo di essere scrittrice e madre in una società profondamente patriarcale:
Ci era chiesto di essere passive ma ambiziose, materne ma eroticamente appetibili, pronte al sacrificio ma appagate: dovevamo essere Donne Moderne e Forti, pur subendo ogni tipo di umiliazione, sia economica sia domestica. (p. 30)
Un discorso cui fa eco anche il celebre monologo di America Ferrera nel film Barbie, come ricorda la stessa Campofreda nella prefazione. L’ambizione e la colpa che sembrano intrecciarsi solo quando è una donna a scegliere di disilludere le aspettative sociali, uscire dai ruoli prestabiliti. Cose che non voglio sapere riesce quindi ad andare oltre il dato autobiografico stretto e comprendere qualcosa di più universale, aprendo squarci su momenti precisi e nodi cruciali su cui interrogarci. Nel mondo frammentato di Levy la scrittura diviene il mezzo per governare la dispersione della propria vita, scrivere quello che la voce solo sussurrava.
Cadere, anche, ritrovarsi in lacrime salendo una scala mobile. Confidandosi con un estraneo che ascolta la storia della nostra vita al tavolo di un ristorante fuori stagione.
Debora Lambruschini
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