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Vivere aspettando l'estate: "Le guerre preziose", di Perrine Tripier

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Le guerre preziose
di Perrine Tripier
edizioni e/o, febbraio 2024

Traduzione di Alberto Bracci Testasecca

pp. 224
€ 17 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)

Cosa resta delle primavere, delle estati, degli autunni e degli inverni di una vita? 
Così scrive Gallimard, l’editore francese di Perrine Tripier, a conclusione della sinossi di Le guerre preziose, il suo esordio appena tradotto in italiano per e/o. 
La frase è di particolare effetto perché già ci dice molto su questo romanzo: ci preannuncia uno sguardo retrospettivo, nostalgico della gioventù ormai trascorsa, ci promette riflessione, ricordo, languore, e soprattutto gioca con la metafora delle stagioni di una vita, che in questo libro va ben oltre il luogo comune e diventa strutturale
Hanno rubato le mie estati da bambina, le sole che valgano la pena di essere vissute. Fine dell’estate. […] Fine dei lamponi piluccati sul palmo della mano e dei semini incastrati tra i molari. Fine delle ore liquide e luminose, dell’augusta immortalità dei giorni di vacanza, fine degli aghi di pino infilati tra le dita dei piedi umide. Ogni primo settembre è il lutto di un mondo. (p. 65) 
Isadora Aberfletch è un’anziana signora, chiusa nella prigione di una casa di riposo in attesa che la vita si spenga. Tutto intorno a lei è silenzio, noia, giorni ripetitivi, un giallo opprimente sulle pareti e stagioni troppo facilmente confondibili. Un pensiero soprattutto la tormenta: il rimpianto di aver dovuto abbandonare la Casa, della quale ha portato con sé le chiavi, e l’angoscia di non poter morire là dove ha scelto di vivere tutta la sua vita, ben oltre il momento in cui ogni altro famigliare era partito per altri lidi. 
Ho amato abbastanza la Casa da non desiderare altro, in tutta la mia vita, che abitarci, rannicchiata in mezzo alle cose di famiglia, lasciandomi ricoprire dalla patina del tempo esattamente come la ringhiera della scala a chiocciola. (pp. 8-9) 
Così, privata della compagnia dei suoi parenti e lasciata sola con i suoi ricordi, Isadora si abbandona a un flusso di memorie che parte da lontanissimo, dall’infanzia passata a correre d’estate insieme alla sorella e ai cugini, e arriva agli ultimi anni, quelli dell’amarezza e della reclusione in compagnia dei fantasmi. 
Le stagioni sono protagoniste, più di Isadora e più della Casa, perché la narrazione è suddivisa in quattro sezioni intitolate, appunto, Estate, Autunno, Inverno e Primavera. Il legame tra le stagioni dell’anno e la vita di Isadora è strettissimo, e non si limita alla facile associazione dell’età giovane alla bella stagione e della vecchiaia al tempo delle foglie morte: la vita di Isadora nella Casa sembra scorrere in completa simbiosi con il cambio del terreno, della luce, con il succedersi dei prati verdi alle distese di neve, nell’attesa disperata che tornino le giornate di agosto in cui zii e cugini venivano in visita e la famiglia al completo si riuniva nella grande Casa popolandola con risate, sussurri, pranzi sonnolenti e risvegli tiepidi. 

Passata l’infanzia, Isadora resta nella Casa mentre le persone della sua vita si dileguano: i cugini Klaus, Louisa, Magda e Amelia si creano altrove una vita e una famiglia, mentre prima la madre, poi la sorella Harriette e il padre scompaiono lasciando Isadora sola nella grande casa, in compagnia dei morti più che dei vivi. Tripier riesce a rappresentare vividamente lo scarto tra la percezione che gli altri hanno di Isadora e quella che lei ha di sé e della vita che ha scelto: mentre per gli altri resta «la zitella senza figli che non capiva niente» (p. 62), Isadora mantiene lo stupore di una bambina e l’attaccamento alla sua prima e unica famiglia, quella della sua infanzia. La voce narrante per tutto il romanzo è quella di Isadora, e il suo racconto segue l’alternanza di momenti di lucida riflessione sul presente a lunghi viaggi col pensiero, tra i ricordi felici o meno. 

La prosa di Perrier è piacevole: poetica senza essere barocca, ricca di metafore e di parole abbinate in modo curioso, inusuale e azzeccato
Dalle finestre della cucina guardiamo il timido calore ridare gradualmente vita ai muschi del frutteto e alle tovaglie d’erba azzurra del giardino dormiente. Dopo tre giorni o una settimana che fa più caldo abbandoniamo i maglioni della bisnonna sugli schienali delle sedie, dove rimangono ansimanti con le lunghe maniche che strusciano sul pavimento mielato di sole. Ci stiracchiamo come gatti pigri che riemergano dalla siesta, felici come un funambolo che si allunghi nell’ora dorata di uno zenit nuovo.
L’effetto che ottiene è quello di una sorta di diario, senza date e luoghi se non un’indicazione, generica eppure tanto fondamentale, sul periodo dell’anno in cui gli eventi si sono svolti. La lettura di Le guerre preziose può essere per ciascuno un’esperienza diversa. Per qualcuno sarà un romanzo piacevole da leggere in una lunga domenica primaverile; per altri, una malinconica gita fra memorie familiari in cui chiunque si può rispecchiare. Infine, può soprattutto essere un’immersione dentro le vite di persone che, un tempo, hanno abitato e sono state felici in qualcuna delle molte cascine abbandonate che ogni tanto incontriamo in campagna, e che da fuori ci appaiono solo ruderi.

Michela La Grotteria