di Margaret Atwood
Ponte alle Grazie, marzo 2022
Traduzione di Guido Calza
pp. 672
€ 22,50 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)
Nel 2001, con gli attacchi terroristici alle Twin Towers e al Pentagono, cambiò tutto. Gli antichi presupposti furono messi in discussione, le antiche certezze volarono fuori dalla finestra, le antiche ovvietà smisero di essere vere. La paura e il sospetto erano all’ordine del giorno. Ed è qui che comincia Questioni scottanti. Perché questo titolo? Forse perché le questioni che abbiamo dovuto affrontare finora nel Ventunesimo secolo sono ben più che urgenti. Ogni epoca pensa questo delle proprie crisi, naturalmente, ma non c’è dubbio che quest’epoca sia diversa. (p. 12)
È con queste parole che Margaret Atwood, scrittrice canadese tra le più rilevanti del panorama contemporaneo, riassume i presupposti che animano la sua «terza raccolta di saggi e scritti d’occasione» (p. 7), risalenti a un arco temporale compreso tra la metà del 2004 e del 2021. Strutturato in cinque parti, Questioni scottanti (Burning Questions) risulta essere un volume poderoso che si dispiega attraversando un ventennio in cui i temi caldi della nostra epoca si sono fatti via via sempre più incalzanti: dalla crisi climatica, alla questione femminile, dalle sorti alterne delle democrazie, all’avvento dei social media. All’interno di questa suddivisione, ciascuna sezione «è segnata da un avvenimento o da un punto di svolta» (p. 13), si tratti del post-11 settembre, del crac finanziario del 2008, dell’elezione di Barack Obama prima e di Donald Trump poi o dell’inizio della pandemia di Covid-19.
Lungo questo percorso, l’autrice intreccia, con notevole esperienza, la sua parabola di vita, tra il privato e la scrittura, con il grande fiume della Storia, svelando, a poco a poco, spunti e metodi di lavoro. Si moltiplicano acute riflessioni sulla contrapposizione tra romanzo realista e narrativa di genere, giacché, «purtroppo per i romanzieri, alla maggior parte dei lettori piace essere intrattenuta» (p. 25) o sulla genesi e la vita successiva del suo romanzo più noto, Il racconto dell’ancella, letto da una quantità tale di studenti al liceo da farle ammettere: «ce n’è un sacco che si sorprende che sia ancora viva, al punto che quasi me ne stupisco io stessa» (p. 369).
Come la mettiamo con gli scrittori e la scrittura? Devono - anzi, dobbiamo - limitarsi a fare da megafono, a riplasmare banalità accettabili che si presumono vantaggiose per la società, oppure abbiamo qualche altra funzione? Se si trattasse di una funzione che gli altri disapprovano, i nostri libri verrebbero messi al rogo? E perché no? Non sarebbe la prima volta. Un libro non ha nulla di intrinsecamente sacrosanto. (p. 13)
Tengono banco anche ragionamenti sulla letteratura nella sua accezione più intima e teorica, «un’enunciazione o un’esternazione della fantasia umana. Porta alla luce le forme più oscure del pensiero e del sentimento - il paradiso, l’inferno, gli angeli e tutto il resto - così che possiamo guardarle ben bene e magari comprendere meglio chi siamo e cosa vogliamo, e quali sono i limiti dei nostri desideri» (p. 36); senza tralasciare la particolarità del processo d’interazione col personale, poiché «si può vivere la propria vita o dedicarsi alla scrittura, ma non fare le due cose allo stesso tempo perché, malgrado la vita possa essere l’argomento dello scrivere, è anche il suo peggior nemico» (p. 196).
Alla riflessione sulla letteratura si interseca anche quella sull’ambiente (in linea con la familiare esperienza dei lunghi soggiorni del padre, ricercatore entomologo, nei boschi del Québec), attraverso un excursus tematico riguardante la foresta - da Dante a Shakespeare, per arrivare alle fiabe più conosciute - in base al quale appare evidente che, «per quanto gli ambientalisti possano insistere sull’importanza dell’averne cura, sotto sotto le foreste ci spaventano. E ci mettono in soggezione, un lato della nostra natura che continuamente fa spuntare versioni di fantasia» (p. 125).
In generale, risulta davvero nutrita la schiera di colleghi, di ieri e di oggi, a cui vengono dedicati ampi interventi: è il caso, ad esempio, dell’illustre connazionale Lucy Maud Montgomery, in relazione alla quale sostiene di aver immaginato, per l’eroina di Green Gables, un ipotetico seguito rovesciato, intriso di un tetro realismo che l’avrebbe vista «tossire come la Traviata, spegnersi giovane e in malo modo ed essere sepolta in una tomba senza nome, con niente a segnalare la fine di una tale derelitta dal cuore d’oro se non una scarica di battute volgari da parte dei suoi vecchi clienti» (p. 145). Mentre scandaglia le ragioni dell’inarrestabile fortuna di questa saga, inanellandole alle sorti della sua creatrice, sottolinea prontamente che, «se non fosse altro che un soufflé di idee felici e lieti fini, la «Annite» si sarebbe spenta da un pezzo» (p. 146). Infatti, «il primo aspetto che distingue Anna da tanti altri «libri per ragazze» scritti nella prima metà del Diciannovesimo secolo è il suo lato oscuro: è questo che dà al libro un’energia frenetica, a volte quasi allucinatoria, e rende l’idealismo e lo sdegno dell’eroina così toccanti e convincenti. Il lato oscuro nasce dalla vita nascosta dell’autrice, Lucy Maud Montgomery» (p. 146).
Continuando a “giocare in casa”, esprime tutto il suo apprezzamento per Alice Munro, «indubbiamente annoverata fra i massimi esponenti della narrativa in lingua inglese del nostro tempo» (p. 150): «scrive novelle, come si diceva una volta, o racconti, come più comunemente li definiamo adesso. Per quanto siano numerosi i grandi autori americani, britannici e canadesi che prediligono questo genere letterario, sopravvive ancor oggi una tendenza diffusa, e infondata, a equiparare la lunghezza con l’importanza» (p. 151). È, infatti, a questa voce novellistica dell’Ontario sudoccidentale, divenuta autrice di fama internazionale, che va anche il merito di essersi affacciata alla scrittura in una piccola realtà, come quella canadese dell’epoca, quando «lo sapevano tutti, che non potevi guadagnarti da vivere scrivendo» (p. 153).
Guardando ancora al continente americano, è il Premio Pulitzer Richard Powers a guadagnarsi un posto d’onore tra coloro che, perfino tra cent’anni, saranno in grado di lasciare intatti nei loro libri «le preoccupazioni e le ossessioni, i manierismi verbali, le battute, gli errori marchiani, le illusioni, le sciocchezze, gli amori e i disamori e i sensi di colpa del nostro tempo» (p. 90), per farle aggiungere, con il guizzo che la contraddistingue: «tutti i romanzi sono capsule del tempo, ma quelle di Powers sono capsule più capienti e inclusive di gran parte delle altre. Dubito, tuttavia, che Richard Powers dovrà aspettare cent’anni. Fra non molto, gli studiosi di letteratura americana cominceranno a scavare nella sua opera con picconi e badili. Se lì dentro non c’è abbastanza roba per scriverci mille tesi di dottorato, io sono il Mago di Oz» (p. 90).
C’è spazio poi per una vera e propria passione di Margaret Atwood per i Tudor e, di conseguenza, per la loro interprete romanzesca più nota, Hilary Mantel, «esperta delle più oscure macchinazioni» (p. 243), esaltata per la dote con cui attraversa «un genere pieno d’insidie» (p. 243) come il romanzo storico, in cui, a dire il vero, «non conta il cosa ma il come. E se è vero che conosciamo la trama, non è così per i personaggi» (p. 244).
All’interno di questa galleria letteraria troneggia anche la baronessa Karen Blixen, avvistata per la prima volta, con gli occhi di una bambina di appena dieci anni, all’interno di un servizio fotografico della rivista Life, in seguito analizzata sotto la lente delle Sette storie gotiche: un volume - volontariamente pubblicato sotto pseudonimo maschile con il cognome di nascita - «popolato di narratori, e anche di quel tipo di esfoliazione frattale e di strutture multicamerali così tipiche dei «tales» più antichi come le Mille e una notte e il Decameron» (p. 289), nonché il «primo atto di una rimarchevole carriera letteraria, che ha posto Isak Dinesen nella lista degli scrittori fondamentali del Novecento» (p. 292).
Al Bardo spetta, invece, l’onorevole qualifica di «scrittore preferito» (p. 435), non tanto e non solo in virtù dello status di chi «sicuramente ha dato alla lingua inglese, al teatro e alla letteratura in questa lingua un contributo più grande di quello di qualsiasi altro autore» (p. 445), ma soprattutto perché «Shakespeare è enigmatico. Non solo sappiamo poco o niente di cosa veramente pensava, provava e credeva, ma le sue stesse opere teatrali sono sfuggenti come anguille. Quando credi di averlo messo con le spalle al muro, l’interpretazione a cui tenevi tanto trova una scappatoia che non avevi notato, e tu rimani lì a grattarti la testa» (p. 435); in quest’ottica, viene ripercorsa, come sincero omaggio, la sua travagliata riscrittura della Tempesta shakespeariana, Seme di strega.
Un’altra cospicua fonte d’ispirazione per l’autrice è sicuramente da rintracciare in Ray Bradbury, colui che «affonda le radici nel nucleo più oscuro e gotico dell’America. Non è un caso che nel 1692 una sua antenata, Mary Bradbury, fosse stata condannata per stregoneria durante i famigerati processi di Salem» (p. 487). In maniera nient’affatto sorprendente, la madre del Racconto dell’ancella non manca di rammentare: «chiunque scriva, ai nostri giorni, racconti del fantastico - e in questa definizione includo le distopie - che al momento vanno per la maggiore - è pesantemente in debito con lui» (p. 491).
Molti altri ancora, da Charles Dickens a Stephen King, da Doris Lessing a Franz Kafka, passando per Simone de Beauvoir, popolano in maniera vivace queste pagine - dense di riferimenti, ma piacevolmente scorrevoli - in cui la letteratura si fa strumento principale per l’ampliamento di orizzonti che non possono mai rivelarsi banali. Quella che ormai si definisce «una scrittrice abbastanza nota, una nonna e una vedova, sempre dal guardaroba limitato» (p. 7) è riuscita, nel corso del tempo, a disseminare questa miscellanea - di saggi, discorsi, prefazioni e articoli - di informazioni e significati che, nel delineare la sua visione del mondo, sanno anche tracciare affreschi puntuali della nostra contemporaneità.
Che genere di storie possiamo raccontare, noi scrittori, sulla nostra situazione sempre più disperata? Quali storie potrebbero essere d’aiuto alla comunità umana di cui facciamo parte? Non ve lo posso dire perché non lo so. Ma so che finché avremo speranza, e la speranza l’abbiamo ancora, noi racconteremo storie e, se avremo tempo e mezzi, le metteremo per iscritto, perché l’arte di raccontare storie e il desiderio di ascoltarle, trasmetterle e trarne un senso è parte della nostra natura di esseri umani. (p. 226)
Spaziando tra arte, letteratura, scienza, storia e politica, Margaret Atwood si dimostra, una volta di più, un’osservatrice diretta e incalzante, a tratti scomoda, così lucida e autentica da non rinunciare mai, mentre disserta, al suo stile ironico, sagace e pieno d’entusiasmo, non smettendo mai di interrogarsi, in relazione alle tematiche più varie, senza perdere di vista chi ha di fronte. Difatti, è a noi che abbiamo il privilegio di leggerla che guarda con occhi attenti, perspicaci e, perché no, fiduciosi (anche nell’immagine di copertina), a noi che riceviamo, intimamente grati, il prezioso dono della (sua) scrittura: «Per chi suona la campana? Per te, Caro Lettore» (p. 635).
Chiara Tolomei
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