Siamo di fronte a due parole che, messe vicine, potrebbero formare un ossimoro. Da una parte il realismo, la realtà, ovvero l’arte di rappresentare il mondo che ci circonda attraverso le parole o le immagini in maniera fedele. Dall’altra parte la magia, quindi l’immaginazione, la fantasia, tutto ciò che non è reale. Siamo quindi spesso portati a pensare che il realismo magico sia una forma letteraria o cinematografica (Il labirinto del fauno, per esempio) che solo apparentemente descrive la realtà per dischiudere un universo di fantasia e immaginazione, proprio come quello che ci assale nelle migliori pagine di Gabriel García Márquez.
Facciamo ora qualche passo indietro nel tempo. Cent’anni di solitudine viene pubblicato nel 1967. Retrocediamo, quindi, al 1937. Siamo a Parigi, in Spagna impazza la Guerra Civile, e la capitale francese ospita l’Esposizione Universale. È l’occasione per il Governo repubblicano spagnolo sotto assedio delle bombe dell’aviazione tedesca e italiana per un grido di dolore che risvegli le coscienze del mondo democratico. In tutta fretta, attraverso l’Ambasciata spagnola in Francia, la II Repubblica va a cercare Pablo Picasso, residente nella ville lumière da decenni. Vogliono incaricargli un quadro che mostri gli orrori della guerra. Lo scrittore Max Aub, all’epoca una specie di direttore dell’Istituto di cultura spagnola in Francia, è alla testa della trattativa. Conosce personalmente il pittore di Malaga e prova a convincerlo. Picasso tentenna, è dubbioso, pur sostenendo la Repubblica ed essendo un fervente antifascista. Fino al 26 aprile 1937, quando l’aviazione tedesca rade al suolo la cittadina vasca di Guernica e le immagini di quella strage iniziano a fare il giro del mondo. Si tratta di uno dei primi bombardamenti massicci su popolazione civile della storia europea e occidentale. Picasso decide che non può starsene con le mani in mano, accetta la proposta del Governo spagnolo e in pochi mesi dipinge quello che a oggi è, forse, il suo quadro più famoso: il Guernika. Che verrà presentato al mondo nell’Esposizione Universale del 1937, a Parigi. Alle critiche che accompagnarono inizialmente il quadro, Max Aub rispose nella presentazione ufficiale del Padiglione spagnolo con queste parole: “Il realismo spagnolo non rappresenta solamente il reale, ma anche l’irreale, perché per la Spagna in generale, sempre, è stato impossibile separare ciò che esiste da ciò che è immaginato”. E aggiunge che, sì, forse è vero che quando guardiamo una donna di profilo vediamo solo un occhio, ma non si hanno forse entrambi gli occhi per vedere l’orrore di Guernica?
[…] dovette essere un pittore d’America, il cubano Wilfredo Lam, a mostrarci la magia della vegetazione tropicale, la sfrenata Creazione di Forme della nostra natura -con tutte le sue metamorfosi e simbiosi-, in quadri monumentali di un’espressione un’unica nella pittura contemporanea.
il meraviglioso comincia a essere tale in maniera inequívoca quando sorge da una inaspettata alterazione della realtà (il miracolo), da una rivelazione privilegiata della realtà, da una illuminazione non abituale o che singolarmente apre alle inavvertite ricchezze della realtà, da una ampliazione delle scale e categorie della realtà, percepite con particolare intensità in virtù di una esaltazione dello spirito che lo conduce a una modalità di “condizione limite”.
Ci stiamo avvicinando al realismo magico, ma soffermiamoci un momento sulle parole di Carpentier e rileggiamole tenendo vicini il Guernika di Picasso e La jungla di Lam. Il meraviglioso, secondo lo scrittore cubano, scaturisce dalla realtà come un’alterazione, un disvelarsi inaspettato, un’esplosione di realtà percepita con un carico emotivo intenso. Non è un qualcosa alieno alla realtà, ma è qualcosa che fa parte di essa e che, a un certo punto, riusciamo a percepire innescando una reazione di stupore e meraviglia. È un qualcosa che si posizione ai limiti della nostra credulità, ma che, alla fine, è ancora nel mondo reale. Non è forse tangibile il dolore di una donna che porta in braccio il figlioletto morto e
Facciamo un altro balzo, l’ultimo, da Cuba alla Colombia, e torniamo dove avevamo iniziato questo commento, l’incipit di Cent’anni di solitudine:
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.
In queste poche righe abbiamo forse il più celebre esempio di realismo magico: lo stupore e la meraviglia di un Aureliano Buendía quando conosce per la prima volta il ghiaccio. Lo stesso stupore e meraviglia che, poche righe dopo, porteranno sull’orlo della follia il padre di Aureliano quando vede per la prima volta in azione una calamita. Cose normali, reali che, però, erano sconosciute nella Macondo di García Márquez, che rappresenta una Colombia arcaica in cui la modernità non è ancora arrivata. Non a caso, a portare queste meraviglie della natura sono un gruppo di mercanti gitani, che girano nei villaggi dell’interno del Paese vendendo le loro diavolerie moderne.
Ma quello che interessa qui è evidenziare che quando parliamo di realismo magico stiamo in realtà parlando del mondo che ci circonda e della sua capacità di stupirci, di meravigliarci, di portare le nostre emozioni a uno punto limite di euforia. La magia, in America Latina, ma anche in Spagna, Italia o India, non si deve cercare nella fantasia o in regni immaginari, ma nella realtà che ci circonda, come, per esempio, un blocco di ghiaccio in una giungla tropicale.