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Un libro bizzarro in cui l'autore è narratore e viceversa, perso tra droghe, autori illustri e viaggi forse immaginari: "Confessioni di uno scrittore in bilico" di Rob Doyle

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Confessioni di uno scrittore in bilico
di Rob Doyle
8tto Edizioni, settembre 2022

Traduzione di Cristina Cicognini

pp. 336
€ 19 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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Libro piuttosto curioso, questo di Rob Doyle, autore irlandese di romanzi e racconti. Un libro difficile da inserire in una categoria: non è un saggio, non è pura autofiction, non è un diario, non un memoir. Si potrebbe dire che Confessioni di uno scrittore in bilico sia tutte queste cose messe insieme, e per questo la sua lettura diventa altrettanto curiosa.

Sostanzialmente Doyle scrive un romanzo su un romanzo dentro un romanzo, con protagonista se stesso proprio dentro la trama di suddetto romanzo. So che può sembrare tortuoso, ma è lui stesso che lo ammette: la narrazione, divisa per capitoli che fanno capo a luoghi specifici e a scrittori citati specifici, è una sorta di Inception in forma scritta, non solo per struttura, ma soprattutto per l'amore appassionato di Doyle (o del suo alter ego letterario) per le droghe.

Il primo capitolo ad esempio è uno spassosissimo racconto sui funghi allucinogeni, su come vanno assunti, su cosa succede alla mente e al corpo quando si ingeriscono. Le droghe, di ogni tipo, colore, forma, effetto collaterale e tipo di trip, sono le protagoniste del libro insieme ai luoghi in cui il protagonista viaggia e agli scrittori illustri che gli fanno compagnia, i suoi eroi letterari, su tutti Cioran, Bolaño e Bataille.

Per tre anni, poco più che ventenne, mi sottoposi settimanalmente alla psicanalisi, mi sdraiavo sul divano in uno studio foderato di libri per parlare dei miei segreti più umilianti, le mie intuizioni angoscianti e i miei desideri perversi. Sugli scaffali di quello studio notai un certo numero di libri di Georges Bataille. Come molti dei suoi lettori, conoscevo Bataille solo per il suo romanzo giovanile pornografico
Storia dell'occhio. La mia ragazza e io ci leggevamo dei passaggi del romanzo, ed eravamo vagamente, forse diligen-temente, eccitati dal linguaggio figurato, ma più che altro lo trovavamo divertente. Sembrava un de Sade svitato: un paio di giovani libertini mettono in atto strani scenari erotici che prevedono uova, bulbi oculari, preti e persino i testicoli di un toro. (p. 126)
In questo viaggio itinerante Doyle stesso non appare nel migliore dei modi: pigro, molle, approfittatore, debole, totalmente avvinto alla bellezza femminile (in termini un po' semplicistici a dire la verità). Ovviamente, spesso in trip, dà il via alle fantasie sessuali più scatenate. In una sua tappa in Italia, ad esempio, precisamente in provincia di Palermo, si invaghisce niente meno che di una sua studentessa diciottenne, masturbandosi pensando a lei.

Ciò che accomuna tutte le tappe (saranno poi reali, queste tappe, o immaginarie?) - Sicilia, Berlino, Spagna, Bangkok e così via - è la voglia di scrivere, di ferire forse, di provocare, scrivendo. Anche qui, non lo fa in modo costante, impigliato in un solipsismo forse inguaribile.

Che io stia "scrivendo di me in un romanzo o scrivendo di me da un romanzo", come sembra stia facendo tu (queste visioni si sovrappongono?), sorge spontanea una domanda: quanto sforzo dovrei mettere nel rendere me stesso un "personaggio gradevole"? Sono uno di quelli? Per te, diciamo? Intanto che siamo in argomento, chiariamo le cose. Per quel che mi riguarda, un romanzo non è altro che un lungo pezzo di prosa in cui qualunque cosa si dica sia accaduta può essere accaduta veramente oppure no, anche se l'autore non si preoccupa di cambiare il proprio nome, ma cambia i nomi degli altri, o inventa questi altri di sana pianta. In poche parole, un romanzo è qualunque cosa io dica che lo sia. (p. 34)
Pare emergere, ai miei occhi è lampante, la ricerca di un mezzo, uno qualsiasi - droghe, dottrine, sesso, scrittura, viaggio, buddismo - che gli permetta di scendere in profondità dentro di sé per comprendere. Comprendere cosa? Forse perché si trova in una costante situazione di disequilibrio, come ci suggerisce il titolo: in bilico. Anche lo stesso stile con cui è scritto il libro è volubile: non si sofferma mai troppo su un argomento, non ti lascia il tempo di annoiarti, da un angolo di mondo salta all'altro, da una droga all'altra, da una citazione colta all'altra.

Si potrebbe definirlo un raccoglitore di idee, più che un romanzo vero e proprio. Fa la stessa impressione che ascoltare un amico un po' brillo o sotto sostanze stupefacenti che racconta di quel posto in cui è stato in vacanza.
Lo consiglio a chi vuole una lettura bizzarra, leggera, particolare.

Deborah D'Addetta